Cultura e Spettacoli

CHARLES MINGUS Storia del «bastardo» del jazz che viveva sempre sulla corda

Nella sua autobiografia scriveva: «In altre parole, io sono tre»

Franco Fayenz

A prima vista, può sembrare che l’impudica autobiografia di Charles Mingus sia da più di trent’anni un best seller. Da quando il compositore e contrabbassista americano riuscì a farla pubblicare in patria nel 1971 da Knopf con il titolo Beneath the Underdog («Peggio di un bastardo»), il libro ha avuto nel mondo varie traduzioni (tre anche in Italia), ma è sempre stato letto poco e male. Adesso Peggio di un bastardo ricompare in un’elegante veste rilegata da Baldini Castoldi Dalai (pp.374, 18 euro) e molto probabilmente sarà la volta buona perché l’editore, l’anno scorso, ha già avuto successo con Tonight at Noon di Susan Graham Mingus, quinta e ultima moglie di Charles, ha dedicato ai 15 anni del suo amore con uno dei più grandi musicisti del Novecento.
Era un personaggio difficile, Mingus. Dolce e violentissimo, colto e ingenuo, pieno di contraddizioni e di appetiti insaziabili. Portava le stimmate di sangue diverso - nero, bianco, giallo, pellerossa - e del triste sobborgo di Los Angeles dov’era cresciuto. Peggio di un bastardo inizia con un pugno nello stomaco al lettore: «In altre parole io sono tre. Il primo, sempre nel mezzo, osserva tutto con fare tranquillo, impassibile, e aspetta di poterlo raccontare agli altri due. Il secondo è come un animale spaventato che attacca per paura di essere attaccato. Il terzo infine è una persona gentile, traboccante d’amore che lascia entrare gli altri nel sancta sanctorum del proprio essere e accetta di lavorare per pochi soldi o anche gratis, e quando si accorge di cosa gli hanno fatto gli viene voglia di uccidere e distruggere tutto quello che gli sta intorno compreso se stesso per punirsi di essere stato così stupido. Ma non può farlo - allora torna a chiudersi in se stesso». Tutti e tre i personaggi sono reali, sosteneva Mingus. Susan, per averli provati sulla pelle, dice che erano assai più di tre.
Da quando uscì, nel 1971, ad oggi, l’autobiografia ha suscitato spesso reazioni sdegnate e benpensanti che ne hanno danneggiato la diffusione, malgrado la statura artistica dell’autore. Molti non hanno gradito il frasario volgare, la descrizione minuta di complicati e ricorrenti certami amorosi dei quali il protagonista si vanta, e il suo risentimento verso la gente bianca. Ma la morte dolorosa di Mingus, avvenuta nel 1979 a 56 anni, ha ridotto e placato un po’ alla volta gli oppositori. I quali hanno capito che la vicenda umana del maestro è tenera, seducente, contraria all’arroganza degli establishment, feroce e cangiante come la sua musica. Per questo diciamo che dopo l’«indimenticabile storia d’amore e di jazz» scritta da Susan Graham, questo è il momento giusto per accostarsi a Peggio di un bastardo con attenzione e senza pregiudizi. Fra l’altro, si imparano parecchie cose che vanno ben al di là dell’«underdog».
Per molti anni Mingus è stato considerato soprattutto un formidabile contrabbassista. Uno di quelli che pizzicavano le corde del contrabbasso (l’uso dell’archetto non era frequente) con la forza delle dita che si coprivano di callosità nei punti giusti. Mingus detestava l’amplificazione, ma sapeva arrotondare e prolungare il suono di ogni nota in modo che cadesse a ridosso della successiva, affascinando il pubblico fino a rubare la scena agli strumenti melodici.
Con il tempo fu evidente che Mingus, prima che virtuoso di contrabbasso, era compositore straordinario e direttore d’orchestra esigente e preciso. Dopo la sua morte si scoprì fra le sue carte un affresco sinfonico di 120 minuti al quale aveva lavorato per la seconda metà della vita. Lo aveva chiamato Epitaph: un’epigrafe a se stesso e una denuncia delle incomprensioni che aveva subìto e provocato. La prima assoluta andò in scena il 3 giugno 1989 all’Alice Tully Hall di New York: fu eseguita da un’orchestra di 30 elementi diretta da Gunther Schuller e riscosse un successo trionfale. La seconda si tenne a Palermo nel ’91, poi Pescara e Roma, sempre con Schuller direttore.

Negli ultimi 15 anni, l’Italia era il Paese che Mingus aveva più frequentato e amato.

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