Ma che cosa scioperate a fare?

C’è da chiedersi in quale tempo e in quale mondo credano di vivere i lavoratori che ieri hanno messo in ginocchio l’Italia bloccando aerei, treni, autobus, metrò. Già l’uso tanto sbandierato dello stesso termine «lavoratori» è così pacchianamente rétro: come se chi fa il salumiere o l’ingegnere non fosse anch’egli un «lavoratore». Quelli dell’Alitalia che ieri hanno deciso lo sciopero immediato e improvviso, poi, si sono costituiti in un «comitato di lotta», rispolverando una terminologia che evoca le epiche battaglie dei minatori o dei braccianti, ma che mal si addice alle divise di hostess, steward e piloti. Chi ha dato vita al «comitato di lotta», precisando naturalmente che la costituzione è stata «spontanea», e presa dopo «un serrato e democratico dibattito», ha creduto di ricalcare le gesta dei pionieri del sindacalismo, mentre invece è solo tornato, al massimo, al primo tempo di Ecce Bombo.
Il senso del ridicolo non si ferma al vocabolario da sessantottini fuori tempo massimo, ma procede spedito, purtroppo, al momento della descrizione delle meschine condizioni dei «lavoratori in lotta». Ieri, rispondendo al ministro delle Infrastrutture e Trasporti Altero Matteoli, che aveva definito «inaccettabile» lo sciopero improvviso, il segretario nazionale dello SdL Paolo Maras ha risposto: «Inaccettabile è che migliaia di lavoratori debbano (il congiuntivo naturalmente è nostro, ndr) ingoiare l’inferno che è stato loro preparato». Capito? «L’inferno». Sarebbe interessante, per saggiare la popolarità della protesta, un giro di pareri in fonderia.
Chi ha bloccato l’Italia ieri vive fuori dal mondo e dal tempo perché non capisce, soprattutto, due cose. La prima è che lo sciopero, già ormai poco efficace nella norma, può essere compreso e in parte accettato dall’opinione pubblica quando a scioperare sono categorie considerate di fascia bassa. Operai, o modesti impiegati, o precari, insomma gente in cerca di qualche pur piccolo miglioramento di una condizione difficile e dura. Ma ormai a scioperare sono sempre più spesso categorie considerate dal resto del Paese come privilegiate, o perlomeno fortunate. Scioperano i piloti, scioperano i professori universitari, scioperano gli orchestrali. Quale solidarietà pensano di ottenere da connazionali che in grandissima parte vivono ben al di sotto del loro livello? Oltretutto costoro difendono sovente situazioni ormai insostenibili: aziende sull’orlo del fallimento, bilanci in rosso, organici sproporzionati. Perfino Cofferati, ieri su Repubblica, parlando degli orchestrali ha detto che «si deve voltare pagina, togliendo i vincoli di legge sugli organici e intervenendo anche su contratti e retribuzioni». La crisi c’è per tutti, e chi non accetta neppure il salvataggio della propria azienda perché vuol mantenere uno status quo da vacche grasse, non può aspettarsi solidarietà nel Paese.
Il secondo motivo per cui uno sciopero come quello di ieri è fuori dal tempo e dal mondo è ancora più semplice. La gente può capire chi sciopera contro un’azienda. Ma non chi sciopera contro i cittadini. Chi ieri ha pensato che lo sciopero potesse giovare alla propria causa è talmente cieco e sordo da non vedere e non sentire le furenti proteste di chi è stato penalizzato dai voli cancellati, dai treni soppressi, dagli autobus fermi. Lo sciopero dovrebbe servire per attirare l’attenzione della gente sul proprio problema; ma quello di ieri è servito solo ad attirare ostilità, per non dire di peggio.
L’Italia che sciopera contro gli italiani è un’Italia vecchia, ma soprattutto sconnessa con la realtà. Sono significativi i risultati del sondaggio di Renato Mannheimer pubblicato sul Corriere della Sera di ieri. Titolo: «Sindacati, i lavoratori li sfiduciano».

Spiega il Corriere: «Per buona parte della popolazione attiva non esprimono gli interessi collettivi». È un po’ lo stesso errore, ci pare, che ha portato la sinistra a perdere le elezioni: parlarsi addosso e non accorgersi che l’Italia del 2008 non ascolta più.
Michele Brambilla

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