«Che emozione al Piccolo, quel provino cinquant’anni fa»

«Rimpiango il pubblico che lanciava fiori e il transfert che si creava fra attori e spettatori»

Lei ricorda i Navigli ricamati di fuliggine che costeggiò a piedi in un triste mattino d'inverno per recarsi in via Rovello dove l'attendeva il Maestro per eccellenza di quegli anni, nientemeno che Giorgio Strehler. Per un'audizione che a quella bambina di vent'anni dal profilo minuto e dai grandi occhi chiari suonava come una campana a martello. «Perché credevo ne andasse della mia vita» ricorda oggi Giulia Lazzarini con quella voce delicata e suadente rimasta miracolosamente indenne nel tempo. «Trovarmi in quel teatro dove la tradizione veniva superata, trascesa, reinventata rappresentava una sfida paurosa». Difficile non credere alla Giulia, come ancor oggi viene affettuosamente chiamata da colleghi e maestranze del Piccolo di Milano, perché la Lazzarini conserva anche fuori scena un timbro, un tono, un accento che non tollerano il minimo dubbio sulla sincerità delle sue affermazioni. Una verità incontrastata la sua che oggi la spinge a considerare con occhio critico i vagabondaggi di quella figurina appena uscita dall'adolescenza.
Eppure l'audizione ebbe un esito più che positivo...
«Sì, ma fu talmente lunga! Strehler mi fece ripetere tante e tante volte tutto ciò che avevo preparato. Fortuna che il teatro era deserto, o meglio io credevo che lo fosse. Solo dopo venni a sapere che tanti miei futuri colleghi, nascosti in balconata, non avevano perso una sillaba di quel terribile esame: primo fra tutti Cobelli che già recitava con Dario Fo e Giustino Durano».
Lei che è sempre vissuta a Milano può dirmi quanto è cambiata la sua città?
«Allora si viveva nell'aspettativa di un cambiamento risolutivo. E si pensava che il contatto diretto col pubblico, che si aveva ogni sera a teatro, diventasse una calamita comunicando gioia, energia, entusiasmo. Educando lo spettatore alla cultura, contribuendo alla bellezza dello spirito. Cosa accadeva quando, accanto al grande indimenticabile Marcello Moretti, recitavamo il primo “Arlecchino” della storia del Piccolo! La gente ci applaudiva, ci lanciava fiori, ci aspettava all'uscita per ringraziarci, diceva che eravamo il simbolo della rinascita del Paese...»
E fuori dal recinto privilegiato del palcoscenico?
«Il cambiamento era nell'aria, si toccava con mano nelle librerie, lo si notava nell'animazione di via Brera, nella vita diurna e notturna dei caffè dove si festeggiava una 'prima'. Mentre oggi...».
Oggi?
«Oggi c'è meno entusiasmo, la voglia di innovare è diminuita, ci si accontenta della superficie a scapito di ciò che matura, pian piano, nel profondo. E questo porta ad una saturazione ancor prima che si conosca il risultato dello sforzo individuale e dell'effetto che si propaga, a macchia d'olio, sugli altri».
E i luoghi, anche quelli sono cambiati?
«Non tutti, fortunatamente. Basta che un alito di vento spezzi la calura e dall'alto si rovesci un filo di pioggia ed ecco la piazza dove abito io diventare un luogo magico e inesplorato, nuovo come il primo giorno della creazione. Mentre Roma resta immutabile con qualsiasi tempo nella sua bellezza, Milano ha una capacità di trasformarsi che non cessa di sorprendermi».
Sarà per questo che Giulia Lazzarini ha fatto rare sortite professionali fuori dalla sua città?
«Ho fatto televisione quando era ancora richiesta la presenza degli attori di prosa, ho fatto persino un film, sono apparsa in ditta con amici come Bosetti ed Orsini, ma destino ha voluto che il mio lavoro finisse per identificarsi col Piccolo».


Ha dei rimpianti in questo senso?
«Come potrei averne quando giro ancora il mondo coi Giorni felici del mio Maestro e col Ventaglio di Goldoni che è il primo frutto della mia collaborazione con Ronconi? Ciò che rimpiango...».
Cos’è?
«Le atmosfere, quel che d'impalpabile che un tempo si percepiva, il transfert tra attore e spettatore. Quella magia che si levava nell'aria. E che ritrovavo ogni sera nelle vie della vecchia Milano».

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