«Che impresa riprendere nel deserto il parto di decine di cammelli»

Il regista italiano Luigi Falorni racconta l’odissea della troupe impegnata nel Gobi con il documentario candidato all’Oscar

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Pedro Armocida

da Roma

La Fandango di Domenico Procacci continua la sua ostinata e meritoria politica di distribuzione dei film documentari che solo quest’anno ha portato nelle sale titoli come Super Size Me, The Take e The Corporation. Ora, dopo quest’abbuffata di produzioni d’Oltreoceano, ecco finalmente arrivare, da venerdì prossimo, La storia del cammello che piange, un documentario prodotto in Europa, precisamente dalla scuola di cinema di Monaco, e diretto a quattro mani dall’italiano Luigi Falorni e dalla mongola Byambasuren Davaa.
E proprio di Mongolia si parla. Siamo nel Sud del paese, nel deserto dei Gobi che morfologicamente sembra poter aver alimentato la fantasia di George Lucas per uno degli episodi di Guerre stellari. Qui una famiglia di pastori nomadi aiuta a far nascere i cammelli del loro branco. Una cammella, dopo un difficile e prolungato parto, dà alla luce un bellissimo cucciolo bianco ma gli nega l’allattamento destinandolo così ad una probabile morte. I pastori però non si rassegnano e seguendo un antico rito, fatto di canti melodici e del suono del violino, riescono a far cambiare idea alla madre che a un certo punto sembra proprio che si metta a piangere.
Una storia che, realizzata due anni fa, ha già fatto il giro del mondo (è stato venduto in settanta paesi), commuovendo le platee delle decine di festival in cui è stato presentata, e che è giunta addirittura ad essere candidata all’Oscar 2005 nella categoria miglior film documentario. Il regista, nato a Firenze 34 anni fa ma da dieci trasferitosi in Germania, spiega così le origini d’un successo inaspettato: «Credo sia dovuto al fatto che si tratta d’una storia dalla portata universale con un messaggio immediatamente accessibile a chiunque: è la vicenda di un salvataggio, della perdita di un amore e della lotta per riconquistarlo. Il piccolo cammello che sta morendo di fame rappresenta tutti noi: scacciato, incessantemente alla ricerca di protezione e legami affettivi. Il suo destino è la prova tangibile che non si può vivere senza amore».
Ma riuscire a seguire e filmare dal vivo il parto di decine di cammelli non è certo stata una cosa facile perché, spiega Falorni, «il deserto dei Gobi è un posto magico e bellissimo ma ha forti venti che soffiano a 150 all’ora e temperature che di notte scendono di trenta gradi. Ognuno dei sei membri della troupe a un certo punto si è ammalato, alcune attrezzature si sono rotte. Insomma su due mesi di riprese, i giorni effettivamente utilizzati sono stati venticinque».

Comunque il bagaglio di esperienze che il regista s’è portato dietro è stracolmo di ricordi e d’una grande fascinazione per una cultura così lontana dalla nostra che, spiega, «nonostante il progresso e settant’anni di comunismo è difficile che scompaia perché profondamente legata alla natura e alla ciclicità degli eventi».

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