A chi giova il Gay Pride

Questo pomeriggio a Roma andrà in scena una nuova edizione del Gay Pride, e gli organizzatori si augurano un bagno di folla tale da oscurare, o quantomeno da pareggiare, il successo del Family Day. Non a caso la piazza scelta è la stessa: l’immensa piazza San Giovanni.
Ma c’è da chiedersi se un «bagno di folla» giovi davvero alla causa degli omosessuali. Quale sarà, infatti, l’aspetto più visibile della manifestazione? Quale la coreografia, quali i costumi, quali gli slogan? Insomma: alla fine quale immagine resterà del Gay Pride? Il dubbio è che la manifestazione verrà memorizzata come una carnevalata volgare nelle forme e aggressiva negli slogan.
Guardate che non è il dubbio di un «omofobo» (vocabolo new entry nel politicamente corretto). Ieri, fra le lettere pubblicate da La Stampa, ce n’era una intitolata «Io gay dico no al Gay Pride». Sarà sfuggita ai più, ma merita: «Ogni volta che sento parlare di Gay Pride vado in crisi. Credo che una manifestazione di questo genere, piena di volgarità, anticlericalismo e richieste esagerate come il matrimonio civile, sia controproducente per la nostra causa».
Non si pensi a una lettera fasulla. Intanto perché sarebbe un’offesa al giornale che l’ha pubblicata. E poi perché non c’è dubbio che quanto espresso dall’anonimo lettore sia condiviso da molti omosessuali, che hanno ben capito a quale contrappasso può portare un certo estremismo. Ieri, sul Corriere della Sera, è apparsa una bella intervista ad Angelo Pezzana, 66 anni, antesignano delle battaglie per i diritti degli omosessuali. Pezzana ricorda la prima manifestazione di protesta del suo movimento, il «Fuori»: fu a Sanremo nell’aprile del 1972, «ci ritrovammo in venti davanti al Casinò», tutti in giacca e cravatta, erano di più i poliziotti. Nostalgie delle catacombe? Non è questo il punto. È che il progresso non sta nel passare dalla clandestinità alla pagliacciata. Ha detto Pezzana al Corriere: «Qui in Italia si continua a ricorrere alla mascherata, a un’atmosfera da gran circo da buttare in pasto al pubblico che così giudica il mondo omosessuale come un branco di stupidi».
Insomma. Quale beneficio possono portare le sfilate con chiappe e tette (siliconate) al vento? A che cosa servono i pupazzi del Papa vestito da nazista? E che cosa c’entrano, nel corteo, quei nostalgici del positivismo ottocentesco dell’Uaar, l’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti? Eppure ci saranno, magari con la benedizione del loro maestro, il professor Odifreddi, il matematico che ritiene che con due conti si può svelare «l’enorme mister dell’universo», per dirla con il Carducci, e dimostrare che Dio non esiste. Ma che cosa c’entra l’esistenza o meno dell’Onnipotente con l’omosessualità?
Tutto questo non serve a nulla. Sono finiti da un pezzo, e per fortuna, i tempi delle odiose discriminazioni, i tempi in cui i termini «gay» e «omosessuale» ancora non esistevano e sui giornali si parlava di «torbidi ambienti», «quelli così», «il terzo sesso», «gli invertiti». Basta leggere qualsiasi posta del cuore sulle riviste patinate o vedere le fiction sulla famiglia per rendersi conto che i tempi sono cambiati, anzi se vogliamo dirla tutta oggi, specie negli ambienti «che contano», è guardato come un imbecille chi ha la stessa moglie da vent’anni, non l’ha mai tradita e ha fatto qualche figlio con lei. Inutile alimentare vecchi fantasmi: lo stesso Pezzana ha ammesso ieri al Corriere che la condizione omosessuale in Italia nel 2007 «si è quasi allineata a quella eterosessuale».
Ma la rivendicazione oggi non sta nel chiedere la fine di discriminazioni che non ci sono più. Sta nell’avanzare richieste che il gay lettore de La Stampa ha definito «esagerate». Ha citato il matrimonio civile. Sicuramente, perché è implicito, voleva dire anche le adozioni alle coppie gay. Per chiedere simili «parità» si urlano slogan contro la Chiesa, ma che un bambino debba avere una mamma e un papà non lo ha stabilito monsignor Bagnasco, bensì Madre Natura.
Chiudo citando ancora il gay autore di quella lettera. Nelle ultime due righe ha scritto che la sua sensazione su quanto le esagerazioni siano «controproducenti» la avverte «dai commenti che sento in giro». Ha ragione.

È dai discorsi che si sentono in giro - quelli della gente comune: non quelli degli opinion maker, tutti allineati al nuovo conformismo - che si riavverte un clima che non c’era più, e che Dio non voglia che ritorni, perché sarebbe peggiore di quello dei tempi che furono.
Michele Brambilla

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