Cina pronta per le sanzioni all’Iran. Ma perché Obama non si muove?

La Repubblica popolare apre a misure economiche, il suo presidente volerà presto in America. Ma Barack spera ancora nel contenimento

Cina pronta per le sanzioni all’Iran. Ma perché Obama non si muove?

Sì, la Cina andrà a Washington al summit del 12 e 13 aprile: il presidente Hu Jintao sulla via del Sud America, dopo molti corteggiamenti, parteciperà all’incontro sulla sicurezza nucleare e Iran. Il tema chiave, il Tema. Nei giorni scorsi annunciando che i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e la Germania avevano stabilito di preparare nuove sanzioni avendo la Cina abbandonato l’opposizione, il segretario di Stato americano Hillary Clinton aveva aggiunto, soddisfatta che ci sarebbe stata un’ulteriore tornata di consultazioni non solo fra i 5 più uno, ma anche con gli altri membri del Consiglio.

Insomma, la Clinton segnala con clamore che la promessa fatta da Barack Obama martedì, forte anche del patto con Nicolas Sarkozy («siamo inseparabili sulle sanzioni iraniane», ha detto in visita al presidente americano) di procedere con nuove misure economiche nel giro di qualche settimana ha buone possibilità di riuscire ora che la Cina ha detto a mezza bocca: è inaccettabile un Iran nucleare. Ma quanto è disposta a marciare? Nessuno lo sa veramente, ed è anche difficile mettere in fila le variabili dipendenti delle decisioni cinesi, in genere ispirate da uno spietato realismo.

Il rapporto con l’Iran, con cui la Cina intrattiene relazione economiche di enorme importanza e al quale ha dato una gran mano a costruire impianti nucleari, si è subito dimostrato molto esclusivo: giusto ieri il maggiore negoziatore nucleare iraniano Said Jalili è arrivato a Pechino e ha subito dichiarato quanto sia importante per la Cina e l’Iran cooperare sul nucleare. Fino all’ultimo, cioè, la Cina sembra decisa, se mai lo farà, a far pagare agli Stati Uniti un prezzo molto elevato per votare le sanzioni, e comunque possiamo scommettere che farà di tutto per smorzarle. Difficile valutare a fondo quanto valga il rapporto fra il regime degli ayatollah e quello cinese. Possiamo pensare che i cinesi vadano in America anche perché vogliono usare la leva iraniana per chiedere soddisfazione a Obama sulla vendita delle armi a Taiwan e sull’incontro concesso al Dalai Lama.

La Cina, data la sua onnipresenza economica e politica, ha sempre un vasto parco di argomenti su cui fare leva. Può darsi anche che sia stata convincente per i cinesi la recente visita a Pechino dall’ex capo di Stato maggiore israeliano Moshe Yaalon, oggi vice primo ministro, giunto, immaginiamo, con una quantità di «file», di mappe, di informazioni e foto aeree, e forse con ipotesi di intervento armato nel caso la situazione non migliori. Ma questo non sembra impensierire affatto l’Iran. Ieri, proprio mentre gli americani vantavano l’adesione cinese, il portavoce del ministro degli Esteri signor Ramin Mehmanparast ha detto che «questi discorsi sulle sanzioni non sono che una vuota minaccia rimasta ineffettiva per trent’anni». Il problema è che forse ha ragione. La signora Clinton è molto educata a dire: «Noi pensiamo che l’azione nel Consiglio di Sicurezza sia parte di un negoziato e di una diplomazia che può forse richiamare l’attenzione della leadership iraniana». Di fatto l’impressione è che ormai si parli di «contenimento» più che di cancellazione della prospettiva nucleare iraniana. L’allarme dovrebbe essere rosso, dato che le ultime scoperte della Cia, che ha presentato un documento al Congresso, avverte del grande progresso delle infrastrutture nucleari nel 2009, e anche dello sviluppo dei missili balistici capaci di portare testate nucleari e delle armi di distruzione di massa.

Intanto il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad sembra avere ordinato la costruzione di due nuovi impianti nucleari nel ventre delle montagne. Insomma, nel giro di un anno, dicono gli esperti, avremo la bomba del regime dittatoriale e teocratico più estremo del mondo. Ma di fronte a questa consolidata minaccia gli Stati Uniti propongono solo l’incerto equilibrio del Consiglio di Sicurezza, e tutto un gran parlare, da anni ormai, di «ragionevoli sanzioni» in accordo con la Cina. La mano non è salda: nei mesi scorsi l’opposizione non ha ricevuto nessun aiuto per portare a un cambio di regime, e questa sarebbe stata la migliore garanzia per disinnescare il pericolo. Il «contenimento» poteva funzionare all’era di Brzezinski, ma non funzionerà con il regime dei mullah, se questa è la speranza di Obama. Il panorama è diverso, considerato il terrorismo islamico: l’Iran sarà presto in grado di fornire bombe sporche a Hezbollah e Hamas. Le schiere sono in allarme. Hassan Nasrallah, capo del Partito di Dio, ieri ha garantito d’essere pronto, e anche, con una di quelle fantasie che distruggono la mente araba, che Israele sta per distruggere la moschea di Al Aqsa. Hamas è andata tanto oltre nel cavalcare l’odio anti-israeliano, che dalla Russia Sergey Lavrov ieri ha telefonato a Khaled Mashaal, il capo con base a Damasco, per dirgli di smetterla con i missili. Fatah chiama all’Intifada, la Lega araba parla di fine del processo di pace.

Obama aveva disegnato altrimenti la sua ira contro Netanyahu, voleva piegarlo, e invece ha sollevato il mondo islamico. Ma una cosa vera che intendeva dire a Israele, l’ha detta: Washington può dissentire da Israele, è un fatto nuovo e reale.

«Visto - ha detto Obama al premier, quanto dissentiamo da voi su Gerusalemme? -. Immaginatevi quanto potremmo arrabbiarci se vi muovete contro l’Iran». Ciò che Obama forse non valuta abbastanza è che, alla fine, Israele è suo amico, e l’Iran suo nemico: tutti e due per la pelle.

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