VUOTI A PERDERE (Ita 1998) di Massimo Costa - con Giancarlo Giannini, Max Malatesta, Silvia De Santis - '90
Diciamolo subito: Giancarlo Giannini costituisce l'unica valida ragione che giustifica la fatica del cercare un film che si descrive appieno nel titolo. Che è anche tra le cose più azzeccate che reca. Il romano Massimo Costa («La repubblica di San Gennaro»), figlio d'arte del Mario Costa di «Perdonami», lavora su un soggetto del compianto Claudio Lizza, lo sceneggia con lui, pesca il jolly dell'attore di nome e riesce pure a presentare il film al Festival di Berlino. Poi basta. Francesco Cesena, commissario di mezza età (G. Giannini) fuma, legge il giornale e si annoia a morte in una Genova che appare subito, in blu notte, con la solita immancabile panoramica iniziale. Un suono di tromba ogni tanto si insinua inquietante: il nostro vive giornate uguali, monotone. Eppure l'anno prima, durante un controllo di routine (lui sfoglia un quotidiano sul pianerottolo) nell'ignota «Via Fontamara» (Begato?), la morte l'aveva sfiorata davvero. Il suo pessimo collega Bardi viene ucciso, lui si busca un proiettile a frammentazione in una gamba, ammazza un pregiudicato e pure sua moglie (a sangue freddo). È la parte migliore. Ci si ritrova l'anno seguente, con un Cesena irrequieto che tratta male i sottoposti ed il giovane agente scelto Cane (Vincenzo Peluso dalla giacca con bandiera USA sulla schiena). Per passare il tempo si diverte a spaventare due ragazzi arrestati per furto d'auto: la finta bionda Simona (Silvia De Santis) e Fabrizio (Max Malatesta), fingendo di conoscere ben altri loro crimini. «Quei due sono due stronzi. Li vogliamo far cagare sotto?». Volano sberle, insulti, pressioni psicologiche, una manganellata. La coppia racconta la giornata appena trascorsa: lei masturba un tizio all'interno di un furgoncino («mai che con te ci esca un scopata, eh?»), lui affibbia un cazzotto in faccia al caposquadra (Victor Cavallo), si frega dei soldi e una pistola e fugge sul
7. Insieme rubano una giacca. L'elenco delle piccole nefandezze periferiche prosegue: spinto dalla ragazza Fabrizio tenta di fregarsi una telecamera e le busca («sei fortunato che c' hai l'Aids»); lei gli ride in faccia accanto alla fontana di Piazza delle Erbe. Dopo lo attira in un portone, lo eccita e gli dice «basta». Lo spinge anche a far marchette con lei. Perché non la abbatte? La scena con i due ragazzi sodomizzati da due uomini d'affari (uno è C. Lizza) mentre si tengono per mano è stata tagliata. Il racconto dei giovani si alterna all'interrogatorio: il commissario si ammorbidisce, in qualche modo Simona lo intriga, lo attrae. Vorrebbe aiutarla ma lei non coglie ed il collega Cane chiude la partita. La coppia celava realmente un crimine efferato, l'uccisione di un impiegato.
Si vedono una Via XX Settembre invasa da un serpentone di auto in coda, la Sopraelevata (e da lì l'Acquario ed il galeone del film «Pirati» ormeggiato nei pressi), le «lavatrici» a ponente, dintorni della Maddalena e di Corso Podestà, Fabrizio che fa il bagno nudo in una spiaggia di Corso Italia. La città è vista quasi sempre come uno sfondo, un fondale; viene tratteggiata freddamente, senza interesse, mai citata. Il film non decolla, spesso si appropria del linguaggio televisivo, non riesce a costruirsi come noir, fermandosi a metà strada tra le varie combinazioni possibili. Gli attori sono dignitosi ma scompaiono accanto a Giannini. Il nostrano Fausto Paravidino («Texas») ha una particina. Le forze dell'ordine non ci fanno una gran figura: «La Polizia è piena di ignoranti? E vabbè, tu fottitene
sennò è meglio che ti licenzi» (Bardi). Cane, ma te che cosa sei? Da dove esci? Da una barzelletta sui carabinieri? (Cesena).
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