Marzio G. Mian
da St. Louis
Otto chilometri d'asfalto e inchiostro. Delmar Boulevard è la strada più scritta d'America, più della mitica Route 66. Secondo uno studio dell'Indiana University Media School, negli ultimi due anni questo viale di Saint Louis è stato analizzato in quasi ottanta corsi universitari e argomento diretto o indiretto di 320 tesi di laurea nel Paese. La chiamano Delmar Divide, una cicatrice che percorre il volto di Saint Louis, che a sua volta è diventata emblematica dei cortocircuiti politico-culturali americani, tanto da non far apparire casuale il fatto che il dibattito presidenziale del 9 ottobre tra Donald Trump e Hillary Clinton tenutosi nella città dedicata a Luigi IX re di Francia, sia risultato il più triviale che si ricordi, segno del rovinoso tracollo di stile e contenuti di questa campagna per la successione di Barack Obama.
Alla Washington University si è parlato tanto di sesso e zero di emergenza razziale. Eppure i duellanti si trovavano a poche centinaia di metri dalla Delmar, che spacca (...)
(...) la città da Est praticamente dal centro fino ai confini metropolitani a Ovest: i quartieri meridionali del viale sono all'80 per cento bianchi, quelli nella parte settentrionale al 95 per cento neri. Le case a Sud di Delmar valgono in media 400mila dollari, quelle a Nord 70mila; da una parte il 70 per cento ha conseguito un diploma, dall'altra solo il 10 per cento. Che fine ha fatto lo spirito di Saint Louis? Dovrebbe aggirarsi sotto il Gateway Arch, l'argentea capriola che domina la città e che vorrebbe essere l'ombelico d'America, l'arco d'acciaio da cui scoccare sempre nuove sfide e conquiste, saette di un popolo che qui a Saint Louis ha celebrato a lungo la sua missione eccezionale nella Storia. Lo spirito di Saint Louis piazzata alla confluenza del Missouri con il Mississippi, l'avamposto sul limes della prateria diventato avanguardia dell'espansione commerciale, culturale, militare e politica è stato un perno geografico e identitario al centro del Paese, mozzo di una gigantesca ruota; non a caso si chiamava Spirit of Saint Louis il fragile velivolo con cui Charles Lindbergh si librò oltre l'Atlantico.
«Qui dove più si è affermato e più è radicato lo spirito americano», disse Theodore Roosevelt inaugurando la fiera universale di Saint Louis nel 1904, l'Expo con cui la giovanissima nazione dichiarò la sua volontà di potenza rivendicando il ruolo da protagonista del secolo. Tanto che l'evento fu dedicato alla spedizione di Lewis e Clark del 1804, l'impresa sulla quale gli Stati Uniti hanno fondato il mito della frontiera e l'inizio dell'Impero. Oggi Saint Louis 318mila abitanti (negli anni Sessanta erano il doppio) e una popolazione metropolitana di 2.5 milioni - racconta un'altra America, divisa, confusa, incarognita, l'atmosfera è pesante e sembra schiacciare tutto, come fosse una colpa o una pena da pagare. Per la prima volta nella sua storia il Saint Louis Post Dispatch, il quotidiano fondato da Joseph Pulitzer nel 1878, non ha appoggiato il candidato repubblicano alla Casa Bianca, per la prima volta dalla prima presidenza Clinton i sondaggi indicano che la città potrebbe andare a Hillary e che Trump non piace al sessanta per cento dei repubblicani, tanto che uno Stato tradizionalmente conservatore come il Missouri è finito per la prima volta dopo trent'anni nella lista dei swing States, quelli dove l'assegnazione dei seggi sarà combattuta all'ultimo voto. Secondo Tony Messenger, commentatore del Post Dispatch, «la città è il sintomo di molti mali americani, non si capisce se è un laboratorio nazionale o semplicemente una pentola a pressione che è scoppiata due anni fa nel sobborgo di Ferguson con la morte di Michael Brown, che scatenò l'escalation della protesta dei movimenti neri».
«Eccolo il Far West», dice Kp Dennis, rapper sfuggito a due raffiche di semiautomatico e ora parte di una onlus che lotta contro il possesso di armi da fuoco. Sterza da Delmar verso Nord, Page Boulevard. Siamo a poche centinaia di metri dal distretto dei teatri, delle gallerie d'arte, delle università private e del quartiere della bohème chic. È come usare il telecomando, improvvisamente, nel volgere di una manciata di secondi, siamo su un altro canale, un altro continente: case divorate dai rovi o distrutte da incendi, cani randagi, prostitute, gruppi di ragazzi strafatti sulle verande pencolanti, auto scassate che ci inseguono e controllano. «Qui si spara e si muore ogni notte», dice. «Non c'è più una sola scuola, gli unici negozi sono quelli di liquori. E poi chiese, quelle non mancano... Vedi che non c'è nemmeno una bandiera? Il sogno americano è un incubo per chi vive qui».
Ed eccoci a Ferguson, Canfield Drive, l'epicentro del terremoto che ha sconvolto la coscienza americana, portando il Paese a un clima da anni di piombo. Michael Brown, nero e disarmato, fu colpito dalla polizia e rimase sull'asfalto per quattro ore e morì dissanguato. Divamparono gli scontri, arrivarono i tank. «Sembrava di essere a Falluja, questa è la nuova Ground Zero d'America», dice Kp. Tutti abbiamo visto le immagini della lunga sequenza di uccisioni e di proteste soprattutto in città dove la tensione covava da anni, Baltimora, Chicago, Cleveland... Se c'è una Sarajevo del nuovo conflitto razziale americano, questa è Canfield Drive, Ferguson, Saint Louis, la città più violenta d'America, la quattordicesima nel mondo, 188 morti ammazzati nel 2015 oltre la Delmar Divide. Qui il fronte si chiama Martin Luther King drive, un paesaggio di rovine a due passi dalle ville patrizie e le magioni in stile palladiano.
«Benvenuti a Beirut», dice Melvin White, ex postino che ha fondato una associazione per salvare tutte le strade intitolate al Reverendo King: «Qui abbiamo avuto oltre mille persone sparate dall'inizio del 2016, ottanta morti». Comandano le gang, i Creeps, i Bloods, i cartelli messicani. Lyndon McCoy ha 20 anni, era nei Creeps. Porta i segni di quattro colpi di AK47 nella gamba destra. Racconta che l'anno scorso era al parco con un'amica e il suo figlioletto. Sono arrivati due ragazzi e hanno cominciato a sparare con le mitragliette, cercavano di giustiziare qualcuno, sul terreno è rimasta l'amica di Lyndon, teneva ancora per la mano il piccolo. «I proiettili non hanno nome, il problema sono le tonnellate di armi in circolazione, ci sono più armerie che biblioteche», dice il ragazzo. In Missouri è appena passata una legge per rendere ancora più accessibile il possesso di armi da fuoco nel nome del secondo emendamento della Costituzione, quello usato proprio come un'arma dai nemici del gun control all'indomani di ogni strage. «Nel Duemila c'erano 250 milioni di armi nel Paese», dice il capo della polizia di Saint Louis, Sam Dotson, «ora sono 350 milioni, più armi che abitanti».
Nella Sarajevo d'America Trump potrebbe subire un'imboscata dei bosniaci, che a Saint Louis contano una comunità di quasi 70mila persone, tutti profughi arrivati negli anni Novanta, la più grande concentrazione fuori dalla Bosnia Erzegovina: immediatamente dopo i fatti di Ferguson nel 2104, nel quartiere della diaspora bosniaca, Zemir Begic venne ucciso brutalmente da una banda di teenagers bianchi mentre andava a incontrare i futuri suoceri. La comunità insorse, si unì alle proteste afroamericane e decise di diventare un blocco elettorale determinando la vittoria del candidato democratico alla contea di Saint Louis, storicamente roccaforte repubblicana, e ottenendo la poltrona del dipartimento all'istruzione con Ibro Tucakovic, arrivato da Sarajevo nel 1998. La mobilitazione per un massiccio voto democratico alle presidenziali è però stata decisa quando sono giunte le notizie da Belgrado, dove la destra ultranazionalista di Vojislav Seselj ha adottato Trump come icona mondiale anti islamica e quando alla convention repubblicana di Cleveland sono apparsi cartelli ispirati allo slogan di Trump con la scritta «Make Serbia great again».
«Porteremo alle urne tutti i bosniaci di Saint Louis, tra cui tanti orfani e vedove di Srebrenica», dice Tucakovic. Vista dalle sponde del Mississippi la politica americana appare senza dubbio balcanizzata.Marzio G. Mian
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