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Sanità pubblica e privata, la dicotomia inesistente

E’ un confine sempre più fluido, quello tra sanità pubblica e sanità privata

Sanità pubblica e privata, la dicotomia inesistente

Due mondi divisi da una atavica diffidenza che nel tempo si è stemperata fino a trasformarsi in una convivenza necessaria. Se la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo, non specifica chi debba essere a fornire il servizio. Oggi in Italia le prestazioni garantite dal sistema sanitario nazionale possono essere fornite sia dalle strutture pubbliche sia da quelle private, purché accreditate. I privati stipulano accordi con le regioni e le Asl competenti e si impegnano a garantire standard di sicurezza e di qualità. Al netto di riflessi condizionati e prese di posizione ideologiche, individuare i giusti equilibri e i corretti pesi e contrappesi è oggetto di un dibattito fondamentale per la tenuta del sistema.

One Health (onehealthfocus.it), rivista diretta da Giovanni Cioffi edita dal Gruppo The Skill, ha chiamato a confrontarsi sul tema tre grandi protagonisti del settore come Gabriele Pelissero, presidente Fondazione Sanità Futura, già presidente di Aiop Lombardia e Aiop Nazionale; Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe e Virginio Bebber, Presidente di Aris, Associazione Religiosa Istituti Socio-Sanitari. Chi non crede affatto a una contrapposizione pubblico-privato è Gabriele Pelissero. “Tutti i sistemi di welfare sanitario europeo sono a erogazione mista. Vi convivono erogatori di diritto pubblico e di diritto privato. La cosiddetta ‘dicotomia fra Pubblico e Privato’ in realtà è la norma per un sistema pubblico universalistico, un trend e un comportamento organizzativo diffuso in tutto il continente. La struttura mista comporta una parziale libertà di scelta del cittadino, elemento fondamentale nella cultura europea, che può esistere solo laddove vi sia una pluralità di offerta. Il confronto innesca una competizione virtuosa che porterà tutte le parti al miglioramento”.

I dati suffragano la tesi dei pilastri che sostengono un unico edificio. “La componente privata eroga il 25% delle prestazioni ospedaliere, circa il 40/50% delle prestazioni ambulatoriali, e il 70% delle prestazioni specialistiche. Il contributo del privato nel sistema a erogazione mista è, ormai, imprescindibile”. Pelissero a chi sostiene che per salvare il Servizio Sanitario Nazionale servirebbe meno privato risponde in maniera decisa. “Chi fa queste affermazioni vive nel mondo dei sogni e nega lo sviluppo e l’evoluzione di 50 anni dei sistemi di welfare sanitari di tutta Europa. Ognuno è libero di sognare ciò che vuole, ma la realtà è un’altra e non esiste evidenza di alcun tipo che dia un senso a tale affermazione”.

Chi si dice convinto che sia necessario costruire un argine alla crescita del privato è Nino Cartabellotta, presidente di Gimbe. Per Cartabellotta “il privato accreditato rappresenta una grande risorsa per il SSN, ma deve mantenere la funzione di integrazione al pubblico. Ovvero per erogare le prestazioni che servono, dove servono e quando servono. Seguendo una sana programmazione regionale basata sui bisogni di salute e non sul soddisfacimento della domanda di cittadini e pazienti (non sempre appropriata), né tantomeno su un potenziamento indiscriminato dell’offerta, che finisce inevitabilmente per aumentare ulteriore domanda inappropriata. Purtroppo l’utilizzo improprio dello strumento dell’accreditamento in alcune Regioni ha portato all’espansione incontrollata del privato accreditato, che, in un contesto di indebolimento del SSN, si sta gradualmente sostituendo al pubblico. E il problema diventa una minaccia quando le strutture private vengono acquisite dalle assicurazioni, creando un sistema parallelo interamente privato, sia nel finanziamento che nell’erogazione delle prestazioni sanitarie. Un sistema in grado di sostituirsi interamente al pubblico, che segue le regole del libero mercato, e non la tutela di un diritto costituzionale”.

Chi chiede, invece, più spazio e libertà di azione per la sanità privata, in questo caso per quella no-profit, è Virginio Bebber, presidente di Aris, Associazione Religiosa Istituti Socio-Sanitari. “Per il cittadino una prestazione ricevuta nelle nostre strutture non costa nulla di più del ticket previsto. E per le casse del SSN la spesa è pari, se non inferiore, al costo di quella eseguita in una struttura pubblica. La vera differenza è che, grazie alla nostra partecipazione, le liste di attesa, già mostruose, ne traggono comunque beneficio. Un beneficio che potrebbe essere ancora migliore, se non decisivo, se togliessero il limite che ci viene imposto: più di tante prestazioni non le possiamo erogare”. C’è un punto su cui Bebber pone l’accento: “Ciò che più ha impreziosito la presenza delle nostre strutture nel sistema Paese è stata proprio la scelta di farsi non profit sulla scia del nostro caratteristico spirito di servizio ai sofferenti, che si ispira al Vangelo. Essere non profit vuol dire reinvestire all’interno dell’istituzione gli avanzi conseguiti come fattore essenziale di investimento, sviluppo e aggiornamento. Oggi rappresentiamo un’offerta di oltre 40mila posti letto, serviti da circa 100mila operatori sanitari, e oltre 4 milioni di prestazioni ambulatoriali all’anno.

Una presenza che si è dimostrata irrinunciabile per il sistema sanitario proprio nel momento dell’emergenza causato dalla pandemia che ha colpito il mondo intero”.

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