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Classe araba a Milano, l’errore della Melandri

Prendiamo la Lombardia, una delle regioni dove è più forte la presenza dell’immigrazione dai Paesi arabi e musulmani. Ogni cento nuovi nati, ci dicono le statistiche, venti sono figli di extracomunitari: uno ogni cinque. Al ritmo attuale d’incremento delle comunità musulmane e con il tasso di natalità che le distingue (tre volte superiore al nostro), dobbiamo cominciare a prepararci ad un futuro in cui la curva delle nascite sarà sempre più sbilanciata. La scommessa dell’integrazione si gioca anche qui: sulle risposte che sapremo dare alle nuove generazioni d’immigrati. E sull’aiuto che sapremo offrire perché esse siano l’«anello mancante» in grado di saldare assieme, in una visione comune dei valori dell’identità nazionale, le diverse anime di una società multietnica. In questo quadro, la scuola e l’istruzione che i giovani immigrati riceveranno nel nostro Paese assumono un’importanza e un significato ancora più rilevanti. La parte più responsabile delle comunità musulmane ne è consapevole e pensa che il modo più logico e sicuro di raggiungere l’obiettivo sia quello di far crescere e studiare i propri figli nella scuola pubblica del Paese dove vivono e dove dovranno trovare una collocazione e un lavoro. Assistiti, quando è possibile, da corsi supplementari di lingua e cultura islamica, meglio ancora da corsi interculturali messi a disposizione dei bambini dalle origini più diverse.
Una buona parte della nostra classe politica, la parte che è al governo, fa una scelta di segno opposto. Accetta, anzi incoraggia la diffusione nel nostro Paese di scuole islamiche non parificate, al di fuori quindi di ogni effettivo controllo di legge sulle materie e le modalità d’insegnamento. E sostenute, in molti casi, dalle frange più oscurantiste e radicali del mondo musulmano. La riapertura della scuola di via Ventura, a Milano, è l’ultimo esempio di questa politica ispirata a modelli entrati ormai ampiamente in crisi in tutta Europa. In Inghilterra, in Germania, in Francia, nella stessa Olanda, la prima a spalancare le porte alle scuole dell’islam, si è dovuto prendere atto che esse rappresentano un ulteriore fattore di divisione e di contrapposizione nel tessuto sociale, dando vita a dei ghetti destinati ad alzare pericolosi steccati laddove ci sarebbe bisogno di ponti e strade di comunicazione. Nei Paesi arabi, in cui esiste un islam più moderato, sono sempre più attenti al tema dell’istruzione e le scuole dell’islam radicale sono bandite da tempo.
Un rapporto dei nostri servizi di sicurezza che risale a pochi mesi fa, puntava il dito proprio sulle decine e decine di scuole islamiche improvvisate che operano in Italia. Denunciando l’impostazione fondamentalista del loro insegnamento e tutti i rischi che comporta una «penetrazione ideologica» diretta a contrastare ogni forma di integrazione. In molte località del nostro Paese operano associazioni di volontari che si sono date il compito di porre rimedio ai «guasti» provocati dalle scuole islamiche. Occorrono almeno due, tre anni di lavoro, dicono, per recuperare ad un livello di istruzione accettabile e a una normale vita di relazione i ragazzi che le frequentano. Con buona pace di quanti si rifugiano nei luoghi comuni di un multiculturalismo di maniera, non si tratta di rifiutare ad arabi o musulmani ciò che già concediamo a svizzeri, francesi, tedeschi o americani. Si tratta semplicemente di impedire a chiunque si insedi nel nostro Paese di aprire strutture scolastiche incompatibili con le norme dei nostri ordinamenti e con le esigenze dei giusti processi di integrazione.

«Bisogna avere paura quando le scuole vengono chiuse, non quando vengono aperte», sostiene Giovanna Melandri che, per il dicastero che occupa, un occhio sui giovani immigrati musulmani di oggi e di domani dovrebbe pure tenerlo. Sono parole che accendono la prima, pesante ipoteca sul loro avvenire.

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