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«Colloqui improduttivi» tra l’inviata Usa e la giunta in Birmania

Ma si parla anche di un possibile incontro fra il generale Than Shwe e la Nobel Aung San Suu Kyi, apparsa in tv

da Kler Law Seh (Birmania orientale)

Ba Wa dondola nell’amaca, stringe la radio all’orecchio, Saw Roki sposta la gamba di legno si solleva dalla branda, allunga il collo, cerca di carpire qualcosa in quel brulicare di birmano, scrosci di pioggia e confuse frequenze della Bbc. «Dicono che una dell’ambasciata americana è andata a trovare i generali», gli ripete Ba Wa. «Ah - borbotta pensoso Saw Roki - rischia che bastonino pure lei». Ba Wa scoppia a ridere e mima la povera incaricata d’affari americana presa a calci dal generale Than Shwe e dai suoi undici sodali.
In quest’angolo di Birmania orientale sotto il controllo dell’esercito di liberazione karen, braccio armato di un’etnia in rivolta dal lontano 1948, i contorsionismi della diplomazia internazionale non fanno impressione. È difficile dargli torto. Qui la guerra, il monsone e la malaria sono gli stessi da cinquant’anni. Fuori da qui, tra Rangoon, l’impenetrabile fortezza di Naypyidaw e il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a New York qualcosa si muove. E non solo per opera dei recalcitranti generali. Le brecce seppur insignificanti da cui scaturisce l’incontro tra l’incaricato d’affari americano Shari Villarosa e il vice ministro degli Esteri birmano Maung Mynt, come pure l’accenno alla possibilità di un incontro di Than Shwe con l’odiata Aung San Suu Kyi - sono il segnale di un primo cedimento tra le file dei grandi protettori della dittatura. Anche se Shari Villarosa dice che il suo incontro con la giunta è stato improduttivo.
Cambia tono anche Pechino, come si deduce dal discorso dell’ambasciatore cinese all’Onu Wang Guangya. Dopo aver sostenuto per giorni che le dimostrazioni di Rangoon - con il loro carico di morti, desaparecidos e arrestati sono un banale problema interno - ora il diplomatico cinese fa capire che anche il suo Paese può in qualche modo favorire qualche forma di dialogo. A rendere più titubante la Cina non è certo un ritrovato spirito democratico, quanto i timori di imprevedibili rogne olimpiche.
Lo stesso vale per la democratica India, abituata da anni ad abbeverarsi alle risorse birmane chiudendo gli occhi su abusi e violazioni dei diritti umani. Le spudorate avances di Than Swe, che dopo aver sepolto viva Aung San Suu Kyi si dice pronto a negoziare se lei rinuncerà a tutto quello per cui si è battuta, sembrano scalfire anche l’inveterata indifferenza indiana. «Il nostro governo ritiene che il rilascio di Aung San Suu Kyi possa aiutare il processo di democratizzazione della Birmania», sostiene il funzionario indiano Swashpawan Singh rivolgendosi al Consiglio per i diritti Umani dell’Onu a Ginevra, rompendo un silenzio di almeno tre lustri sull’argomento. I cedimenti indiani e cinesi si uniscono così alle pressioni dell’inviato dell’Onu Ibrahim Gambari, che invita la giunta birmana a una trattativa senza condizioni, pena la proposta all’Onu di nuove sanzioni.


Quanto ai militari birmani, tentano la carta mediatica: oltre a far apparire in tv la paladina dei diritti umani Aung San Suu Kyi, minimizzano il bilancio degli arrestati, che non sarebbero migliaia, ma «solo» 700, di cui 513 monaci, e «solo» 13 i morti.

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