Il commento Che fatica perdonare i misfatti del passato

GOVERNO Il sottosegretario Giovanardi si rammarica: è un’offesa ai cattolici che vi testimoniano amicizia

Quarantasei anni fa ho «coperto» il viaggio di Papa Paolo VI in Israele. Ventidue anni fa ho fatto lo stesso per la visita di Papa Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma. Alla visita, domenica, di Benedetto XVI assisterò invece da lontano. Avrò così modo di riflettere non tanto su questa nuova visita papale alla «chiesa» degli ebrei romani, ma sul percorso accidentato dei rapporti fra i cosiddetti «fratelli maggiori» e «fratelli tout court».
Il protocollo può essere una chiave di interpretazione utile. Prima del secolo scorso, il Papa non aveva mai fatto visita agli ebrei. Erano gli ebrei chiusi nel ghetto che facevano visita al Papa per ricevere l'insulto del lancio della pantofola. Quando Herzl fu ricevuto da Papa Pio X, si sentì dire che mai la Chiesa avrebbe riconosciuto uno Stato degli ebrei per motivi tanto teologici quanto politici. Quando Paolo VI, primo Papa a visitare la Terrasanta, si recò in Palestina, rifiutò di entrare in Israele da un posto di frontiera israeliano. Arrivò dalla Giordania; in suo onore venne aperto un varco fra i fili spinati della linea armistiziale dove, a cielo aperto, lo attendeva il presidente israeliano. Disse messa a Nazareth e alla chiesa della Dormizione sul monte Sion, non incontrò alcun dignitario israeliano e inviò dall'aereo un insultante messaggio di ringraziamento al presidente israeliano a Tel Aviv. Quando Papa Wojtyla ruppe il tabù della visita alla Sinagoga, l'attenzione della stampa era rivolta alla dimostrazione contro la visita fatta da uno sparuto gruppo di cristiani all'uscita del corteo papale dal Vaticano. Ci venne allora spiegato che era il vescovo di Roma, non il sovrano dello Stato vaticano, a fare visita agli ebrei romani.
Oggi il Papa che entra nella sinagoga romana non è solo il secondo Papa che si è recato in pellegrinaggio in Terra Santa, ma il secondo che lo ha fatto ufficialmente da sovrano in visita a un riconosciuto Stato sovrano ebraico. Chi non si rende conto di questa evoluzione non capisce o non vuol capirne il significato. Certo, molti problemi esistono ancora fra Papato e Israele. Vanno da questioni di esenzione delle tasse per le istituzioni cattoliche in Israele alle dispute sulla beatificazione di Pio XII; dalla presenza del delegato vaticano al discorso di Ahmadinejad alle Nazioni Unite, al comportamento anti-israeliano e pro-palestinese di non pochi rappresentanti della Chiesa in Terra Santa; dal più o meno larvato antisemitismo di certe correnti laiche cristiane all'insistenza cristiana di proselitismo per la salvezza dell'anima dei «fratelli maggiori». Ma è anche vero che molti dei cosiddetti «esponenti» dell'ebraismo (che come si sa non possiede gerarchie) sono persone di scarso spessore.
Il problema fondamentale, scrive l'ambasciatore d'Israele presso il Vaticano, Mordechay Levi, è «l'autosufficienza (della maggioranza degli ebrei) a definire la propria identità». In altre parole, i cristiani hanno bisogno del popolo ebraico per legittimarsi come Verus Israel, mentre gli ebrei non hanno bisogno del popolo cristiano per farlo. Un problema che ha la sua radice religiosa e politica nel trauma provocato dalla «rottura familiare» iniziale e che oggi ancora per molti ebrei ortodossi «è una ferita dolorosa inflitta dal passato». A parte le molte asimmetrie fra le due fedi, «la vittima ebrea sembra essere incapace di concedere l'assoluzione per i misfatti lontani o recenti perpetrati contro i suoi fratelli e sorelle».
Per Claudel una delle conseguenze di questo trauma era la trasformazione di Gesù in «apolide» per entrambe le parti.

Questione che si poteva risolvere (come lui propose a Buber nel 1953) con un certificato di cittadinanza emesso dallo Stato di Israele. È un problema che richiede tempo, comprensione, umiltà e minore ignoranza di cosa significhi essere «figli di Dio».

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