Chissà se Giorgio Napolitano dopo la bocciatura del Lodo Alfano - che ha dato scacco al Cav ma è stata uno smacco anche per lui - abbia ripensato al biennio ’92-’94 quando fu presidente della Camera. E se, ripensandoci, non abbia maledetto la sua proverbiale prudenza che sfiora la pusillanimità.
L’XI legislatura fu la più iellata della storia repubblicana. Infuriava Tangentopoli e il Parlamento fu ribattezzato «degli inquisiti» perché molti eletti erano sotto inchiesta. Poiché l’opinione pubblica, aizzata da giudici e stampa, chiedeva un repulisti, gli onorevoli impauriti fecero harakiri: per non dare l’impressione di nascondersi dietro l’immunità parlamentare, la abolirono. Finché c’era, nessuno poteva essere messo sotto processo senza il sì della Camera di appartenenza. La vollero i fondatori della Repubblica per evitare che le toghe potessero influire sul funzionamento della politica. Se l’immunità vecchia maniera esistesse ancora, gli eletti - tra cui il Cav - sarebbero esonerati dai processi per l’intera legislatura. Esattamente quello che si prefiggeva il Lodo Alfano che non sarebbe mai stato escogitato. Ma la vigliaccheria del momento abolì la garanzia dando carta bianca ai giudici.
Grande fu il contributo a questa tremarella generale dei presidenti delle assemblee, Napolitano e Giovanni Spadolini, un altro che aveva paura della sua ombra. I due, che erano i più alti in grado, seguirono il gregge senza avere il coraggio di ammonire che la politica si suicidava. Tacquero per quieto vivere e il 29 ottobre del ’93 l’immunità fu cancellata dalla Costituzione del 1948.
È a furia di barcamenarsi e non affrontare mai una lotta a viso aperto che Napolitano è diventato capo dello Stato. Era comunista e già questa era una magagna che avrebbe potuto ostacolarlo. Ma a furia di fare un passo avanti, uno indietro, uno scarto a destra e uno a sinistra, la sua immagine si è annacquata fino a renderla potabile.
Va riconosciuto che al Quirinale sta facendo la sua migliore figura. Nel discorso di insediamento il 15 maggio 2006, Napolitano ha detto: «Non sarò il Presidente solo della maggioranza che mi ha eletto, avrò attenzione e rispetto per tutti». Finora ha mantenuto la promessa. È migliore di Scalfaro e più sincero di Ciampi, i predecessori.
In due occasioni ha fatto centro. La prima, quando nel 2006 andò in Ungheria per il cinquantesimo della rivolta contro l’invasione sovietica. Era una missione difficile per ragioni personali. Nel 1956, già alto dirigente del Pci, appoggiò infatti l’ingresso dei carri armati dell’Urss. Esaltò l’aggressione dicendo: «L’intervento sovietico non ha solo impedito che l’Ungheria cadesse nella controrivoluzione ma ha contribuito alla pace nel mondo».
Con questo macigno, affrontò il viaggio del cinquantenario e fece questo discorso: «Sono qui a nome di quanti governarono l’Italia nel 1956 e che assunsero una posizione risoluta a sostegno dell’insurrezione e contro l’intervento militare sovietico». Ossia, non solo si pentiva pubblicamente in proprio ma si inchinava ai democristiani, suoi avversari dell’epoca, riconoscendo che avevano ragione loro.
Fece anche meglio nel febbraio 2007. Era la «Giornata della memoria» degli italiani infoibati dai comunisti titini con la complicità dei comunisti nostrani. Una carneficina ignorata per decenni per compiacere il Pci e tornata alla luce col secondo governo Berlusconi. Napolitano celebrò la ricorrenza con due staffilate. Una contro l’impudenza del suo partito: «La verità è stata negata o ignorata per pregiudiziali ideologiche e cecità politica». L’altra contro i sicari slavi: «Il dramma giuliano-dalmata è stato scatenato da un moto di odio e furia sanguinaria e un disegno annessionistico slavo... che assume i sinistri contorni della pulizia etnica». La franchezza fece infuriare Stipe Mesic, presidente croato e comunistone ridipinto: «Quello di Napolitano è revisionismo storico e revanscismo politico». Seguì una quasi rottura con i croati. Protetto dalla solidarietà generale, da Bertinotti a Fini, Napolitano resse botta. Cosa avrebbe fatto in caso di dissenso, non sappiamo. Ma la sua storia fa pensare che si sarebbe ritirato intimidito.
In Giorgio ci sono tre livelli. Se pensa, lo fa con coraggio. Se parla, tentenna. Se agisce, si blocca. Da comunista, aveva rivisto la sua ideologia, passando da stalinista troglodita a riformista. E questo è il pensiero. Appena però deve esporlo a voce alta, prevale la prudenza. Le sue decennali interviste sono piene di «bisogna avere il coraggio di dire le cose come stanno» (che poi non diceva), o di «spesso la confusione si evita facendo chiarezza» (che poi non faceva). La fiera dell’ovvio: meglio un uovo oggi che la gallina domani, più forte la Juventus del Busto Arsizio, più buono il formaggio della crosta. Così, per mezzo secolo, non ho mai fatto un passo falso.
Napolitano è nato a Napoli 84 anni fa nel quartiere di San Ferdinando da buona famiglia borghese con diversi rampolli. Appartiene alla cova dei numerosi comunisti partenopei, Amedeo Bordiga, Giorgio Amendola, Gerardo Chiaromonte, Maurizio Valenzi, ecc. Si innamorò del teatro, fu attore, regista e commediografo. Suoi coetanei e amici erano Giuseppe Patroni Griffi, Francesco Rosi, Antonio Ghirelli, Raffaele La Capria, Luigi Compagnone. Si iscrisse a Legge nel ’42 ed entrò contemporaneamente nel Guf, il Gruppo universitario fascista. Dopo il 25 luglio ’43, come tutti, si trasformò in antifascista.
Nel 1945, si iscrisse nel Pci diviso tra stalinisti di vecchia scuola che volevano comunistizzare l’Italia e l’astuto capo Togliatti che temporeggiava. Giorgio - è sempre stato dalla parte del segretario pro tempore - si schierò con Palmiro, ma stravedeva per il concittadino, Amendola. Era un borghese come lui e più anziano di 17 anni. Furono appaiati come Bibì e Bibò al punto che, per distinguerli, li chiamarono Giorgio ’O sicco (il magro) alludendo a Napolitano e Giorgio ’O chiatto (il grosso) parlando dello stazzuto Amendola. Nel 1953, ’O sicco entrò alla Camera, dove ’O chiatto già sedeva da tempo. Da allora, fu sempre rieletto fino al 1996, quando spiccò il volo come ministro, europarlamentare, senatore a vita. Ma non anticipiamo.
La sua marcia nel partito ebbe una svolta nel 1956 con la cooptazione nel Comitato centrale. Si distinse subito plaudendo alla famigerata invasione già ricordata. Col tempo però divenne sempre più «occidentale». Quando 12 anni dopo l’Urss aggredì la Cecoslovacchia, ’O sicco dissentì. Ad esporsi per una condanna esplicita fu Carlo Galluzzi, responsabile degli Esteri. Napolitano lo incoraggiò con veemenza. Ma i vari Breznev e Gromiko presero di mira Galluzzi e il Pci per calmarli lo rimosse dall’incarico. Dalla bocca prudente di Giorgio non uscì un fiato.
Progressivamente ’O sicco si convertì alle democrazie occidentali e all’economia di mercato in sintonia con ’O chiatto. Furono entrambi etichettati con disprezzo «miglioristi». Ossia, orientati al massimo a «migliorare» la vita degli operai ma traditori della causa comunista che era la presa del potere. Malvisto in casa, Napolitano si fece però la fama di «comunista diverso». La voce si propagò al punto che, a metà degli anni ’70, l’università americana del Mit lo invitò a una conferenza a Cambridge. Ma proprio lui, il «liberale» del Pci, subì l’affronto di non ottenere il visto per gli Usa. A negarglielo fu John Volpe, l’ambasciatore yankee in Italia. «È un comunista e negli Usa non lo vogliamo», disse papale papale il diplomatico. Giorgio metterà piede in America solo dieci anni dopo grazie a Giulio Andreotti che era ministro degli Esteri del governo Craxi.
I miglioristi stimavano Bettino e, contrariamente ai segretari comunisti, Berlinguer, Natta e Occhetto, pensavano che bisognasse accordarsi con lui. Nel Pci iniziò un parapiglia. Gli amici di Napolitano - Gerardo Chiaromonte, Emanuele Macaluso, Napoleone Colajanni, altri - si gettarono nella mischia e furono sconfitti. Giorgio, spaventato, emise quelle sue frasi farlocche buone a tutto, raccomandò prudenza e si allineò coi vincitori. Da Colajanni, che continuava ad agitarsi, prese le distanze. Disse: «È un cane sciolto». Colajanni replicò: «Io sono un cane sciolto ma tu sei un cane da grembo». Aggiunse: «Sei un vile». E uscì dal Pci.
Quando Craxi cadde in disgrazia, ’O sicco non fece una piega. Anzi, maramaldeggiò. In un libro autobiografico scrisse: «L’ascesa di Craxi fu un fatto perverso» e lo accusò di avere osteggiato l’ingresso del Pci-Pds nell’Internazionale socialista. Bettino, da Hammamet, replicò a brutto muso: «Quando Napolitano, che ha peli sulla lingua, dice che pesavano le preclusioni di Craxi non dice assolutamente la verità, anzi è un bugiardo di tre cotte».
Dei due anni di Giorgio come presidente della Camera si ricorda poco di buono. Resta invece memoria dei suoi scoppi d’ira in Aula. Malgrado il tratto signorile e la somiglianza con Umberto II di Savoia, Napolitano perde infatti le staffe non appena è contraddetto. Si trovò meglio nella solitudine del suo ufficio di ministro dell’Interno di Prodi (’96-’98). Fu il primo ministro di Polizia comunista della Repubblica. Segno dell’affidabilità che lo aureolava. Il suo passaggio al Quirinale è caratterizzato da due cose. La legge Turco-Napolitano, che istituì i Centri di permanenza degli immigrati clandestini considerati oggi bieca invenzione dei reazionari, e la fuga di Licio Gelli dagli arresti domiciliari. Il Gran Maestro divenne uccel di bosco il giorno stesso della sentenza che lo condannava per strage e depistaggio.
Poi però sono arrivate le consolazioni. Ciampi lo nominò senatore a vita nel 2005 e l’anno dopo salì al Colle. E ora noi ci teniamo quest’uomo ricco di intenzioni, ma scarso di temperamento.
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