Per quanto Ahmadinejad abbia vinto le elezioni - e anche ammesso che le abbia vinte regolarmente, addirittura prendendo più voti del suo sfidante nella città natale di quest’ultimo, Khameneh - è lui il grande sconfitto della politica iraniana. Lo è perché ha trasformato il settantenne Mir Hossein Moussavi, uno che era stato ripescato dal retrobottega dei leader in disuso, dove per vent’anni era rimasto chiuso a fare il pittore astrattista, in antagonista coraggioso e, paradossalmente carismatico, il carisma che deriva da chi ti appoggia e non dal fatto di essere tu la guida.
Lo è perché ha coagulato contro il suo nome una protesta come da un trentennio, cioè dalla nascita della Repubblica islamica, non accadeva di vedere, di gran lunga superiore a quella studentesca di dieci anni fa, elitaria e quindi più facilmente, pur se sanguinosamente, schiacciabile.
Lo è perché in un sistema che ha sempre identificato il suo presidente come il rappresentante del consenso popolare, per la prima volta si è trovato a constatare che una gran parte di popolo iraniano lo giudica in termini talmente negativi da rischiare la vita pur di farglielo sapere.
Lo è perché dei tre elementi che dalla fondazione della Repubblica hanno garantito, anche nel loro salire e scendere, la legittimità a governare, e cioè il consenso, il benessere interno, la minaccia esterna, i primi due, che erano sotto la sua diretta responsabilità, non sono stati mantenuti. L’economia va male (il tasso di disoccupazione è del 25 per cento, ma raddoppia per la fascia d’età giovanile, l’inflazione ufficiale è del 13 per cento, quella reale del 25), la fiducia in chi ti governa non c’è più. Resta in piedi, teoricamente, il terzo, quello che permise all’Iran di sopravvivere alla guerra scatenatagli contro dall’Irak, quello che ha a lungo avvelenato i rapporti con gli Stati Uniti, quello che, ancora dieci anni fa, fece alla fine muro contro la rivolta degli studenti allorché il pressante, e semplicistico, invito da oltreoceano a ribellarsi, venne strumentalizzato come tradimento verso la patria. Sotto questo punto di vista ha ragione l’analista di politica estera del Financial Times, Gideon Rachman, a dire che l’unica cosa che l’Occidente può fare, al di là di un «retorico appoggio», è «guardare, attendere, sperare».
Dice ancora Rachman che dal 1979 a oggi, la lezione cruciale della lunga ondata di democratizzazione avutasi nel mondo sta nel fatto che alla sua base ci sono quasi interamente ragioni interne, nazionali. È vero che nel 1989 il «non intervento» di Mosca, sugli sconvolgimenti in atto nell’Est Europa, o, all’opposto, l’«ingerenza» di Washington nel favorire la dipartita di Marcos nelle Filippine, accreditano anche un’altra lettura, ma, come egli sostiene, si trattava in entrambi i casi di scelte relative a «regimi clientelari», legati a una sorta di filo doppio all’«alleato di riferimento». L’Iran è un’altra cosa e lo ha ampiamente dimostrato.
Nella vittoria-sconfitta di Ahmadinejad c’è un errore di valutazione da parte di Khamenei, la «guida suprema», il vero dominus della politica iraniana. Fino a poco prima della campagna elettorale, si dava per sicura la candidatura di Khatami come sfidante del presidente uscente, e molto probabile la sua vittoria. Non tanto perché, in una fuorviante lettura tipicamente occidentale, si trattava del candidato più liberale, il più consono, insomma, ai nostri gusti, quanto perché la fallimentare politica economica di Ahmadinejad gli aveva messo contro il potere dei bazarì e il suoi appoggiarsi ai «guardiani della rivoluzione» alienato le simpatie dei mullah. Si è così cercato di indebolire Khatami illudendo altre candidature interne al suo fronte, cosa di cui lo stesso Khatami ha preso atto ritirandosi dalla competizione, ma non per questo mettendosi di traverso a chi ne prendeva il posto. L’appoggio di Rafsanjani, ex presidente e figura di spicco dei conservatori, ha fatto il resto e intorno a una candidatura debole, persino riluttante, per nulla anti-sistema, si è ritrovata una massa di manovra formidabile e per certi versi più libera di agire per interposta persona di quanto non lo sarebbe stato in maniera diretta.
Nella vittoria-sconfitta di Ahmadinejad c’è anche una incomprensione della nazione che già era stato chiamato a governare. Il 70 per cento degli iraniani ha meno di trent’anni, metà del corpo elettorale, quasi trenta milioni, è fra i quindici e i ventotto, oltre il 60 per cento degli studenti è femmina. A ogni elezione il corpo elettorale ringiovanisce e smonta qualche pezzetto di Repubblica islamica, facendo del Paese un laboratorio in continua trasformazione. La sua ipotesi radical-movimentista fu favorita alle elezioni precedenti dal forte astensionismo provocato dalla delusione per il fallimento politico, l’illusione riformista bloccata, di Khatami, ma si è rivelata perdente in un corpo sociale che cerca una propria via alla modernizzazione all’insegna di un cauto riformismo, e priva degli elementi più vitali della società, i quadri professionali, le élites universitarie, i businessmen costretti a un regime economico asfittico.
Difficilmente «la «rabbia popolare» di questi giorni vedrà una crisi del sistema tale da provocarne lo schianto e il suo rifondarsi su basi meno statuali se non più liberali. Ma gli iraniani sono pazienti e perseveranti, hanno dato al mondo la poesia, la miniatura, il tappeto, meravigliose e irripetibili nullità che però permettono agli uomini di definirsi tali.
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