"Confindustria, la vera casta Riesce a far rimpiangere il partito comunista cinese..."

Filippo Astone: "È un apparato da ministero degli Esteri che difende i grandi con i soldi dei piccoli". E gli imprenditori veneti stufi di versare 150 euro per dipendente si schierano con lui

"Confindustria, la vera casta Riesce a far rimpiangere 
il partito comunista cinese..."

Predica contro la politica politicante, ma è il più vecchio e il più influente partito italiano, 142.000 iscritti che danno lavoro a 4,9 milioni di persone, ramificato come nessun altro sul territorio. Predica contro la burocrazia, ma si avvale di un apparato faraonico di 4.000 dipendenti, paragonabile per dimensioni soltanto a quello che consente al ministero degli Esteri di operare nei cinque continenti. Predica contro gli sprechi, ma preleva ogni anno dalle tasche dei propri associati qualcosa come 506 milioni di euro, poco meno di 1.000 miliardi di lire, per tenere in piedi una sede romana, 18 strutture regionali, 102 provinciali, 21 federazioni di settore e 258 organizzazioni associate. Predica contro la casta, ma è un organismo piramidale, dominato dal nepotismo, che procede dal padre e dal figlio come lo Spirito Santo nel Credo.
A questo punto sembrerebbe calzante la similitudine con cui Filippo Astone introduce nelle prime tre righe Il partito dei padroni (Longanesi), in libreria da giovedì scorso: «In Italia il cuore del potere pulsa con il ritmo di due grandi partiti che non si presentano direttamente alle elezioni: la Confindustria e la Chiesa cattolica». Con l’unica differenza che, mentre il battito della seconda è costantemente monitorato nelle piazze, sui giornali, in televisione, al cinema, nella saggistica, quello della prima è talmente flebile da risultare impercettibile.
Ad auscultarlo in profondità, con uno stetoscopio lungo 384 pagine, provvede ora Astone, 38 anni, torinese, da 10 redattore del settimanale economico Il Mondo, un cronista che viene dalla gavetta e, con tutta evidenza, non pare aver paura di ritornarci. «Mio padre morì quando avevo 14 anni. Appena laureato in scienze politiche, ho dovuto mantenermi da solo. Ho cominciato come abusivo nel 1992 a Roma, a Paese Sera, raccomandato da Adele Faccio, che mi ospitava a casa sua. Giravo in tram e, quando non avevo i soldi, non pagavo il biglietto. L’anno dopo ho vinto una borsa di studio al gruppo Class: Campus, Mf, Italia Oggi. Fino al 2000 ho collaborato a 25 diverse testate, incluso Il Giornale. Il primo anno a Milano eravamo in tre in una camera, poi in due, poi da solo, poi mi sono fatto il monolocale, poi il bilocale, poi la casa, dove ora vivo con Katarzyna, polacca, che nel 2000 rimase vedova all’improvviso, a 24 anni, con una bimba di 6 mesi. Ci siamo sposati a gennaio. Il mio istinto di orfano mi ha portato a prendermi cura di lei e di Camilla, che per me è più d’una figlia».
Sul giornalismo Astone ha le idee chiare: «Penso che il nostro mestiere consista nel raccontare ciò che i lettori non sanno e nello spiegare ciò che sanno». Con l’editore Longanesi aveva pubblicato lo scorso anno Gli affari di famiglia, nel quale faceva a pezzi alcuni celebri rampolli, accusati, bilanci alla mano, di non essersi rivelati all’altezza dei padri, inclusi Maurizio e Piergiorgio Romiti, figli di Cesare, presidente onorario della casa editrice per cui Astone lavora.
Stavolta la faccenda è assai diversa, molto meno personalistica e assai più politica, perché Il partito dei padroni ha trovato prim’ancora d’uscire parecchi sponsor proprio all’interno di Confindustria, soprattutto nel Nordest, dove il crescente malcontento per la gestione romanocentrica dell’elefantiaca organizzazione è palpabile da un decennio. Di sicuro almeno dal 2004, da quando il trevigiano Nicola Tognana fu costretto, nonostante fosse sponsorizzato dal presidente uscente Antonio D’Amato e da Silvio Berlusconi, a ritirarsi dalla corsa per la presidenza di Confindustria, avendo i poteri forti puntato su Luca Cordero di Montezemolo. Non a caso il libro di Astone domani alle 18.30 non sarà presentato ufficialmente né a Roma né a Milano, bensì a Venezia, nell’aula magna dell’Ateneo veneto in Campo San Fantin. Al fianco dell’autore, tre imprenditori che nel volume occupano parecchie pagine: Enrico Marchi, presidente della Save; Franco Moscetti, amministratore delegato dell’Amplifon; Ettore Riello, presidente della Riello group.
Come mai molti associati di Confindustria solidarizzano col loro fustigatore?
«Marchi è proprietario della Finint, la più grande merchant bank del Veneto, 600 dipendenti. Con la Save gestisce il terzo polo aeroportuale italiano, dopo Roma e Milano, e cioè gli scali di Venezia e Treviso, ai quali sta per aggiungersi quello di Trieste. Rappresenta, dopo l’Eni, la prima industria di Venezia. Con la catena Ristop fa concorrenza ad Autogrill. L’anno scorso, forte del 90% dei consensi, voleva candidarsi alla presidenza di Unindustria Venezia. Ma è un outsider e non ha fatto i conti con i meccanismi di cooptazione e di professionismo politico che governano il partito dei padroni. Qualche cavillo e lo hanno subito impallinato. “Ero convinto che per fare il presidente della territoriale ci volesse il voto degli elettori, invece è indispensabile il consenso dei colonnelli”, s’è sfogato con gli amici».
Mi ricorda la vicenda di Riello, penalizzato per avermi dichiarato cinque anni fa, a proposito di Montezemolo: «Non è un imprenditore vero. Sarebbe ora che qualcuno tornasse a rischiare il proprio culo invece di fare ingegneria finanziaria con i soldi degli altri».
«Infatti anche Riello voleva correre per la presidenza di Confindustria Verona. I tre saggi, “quelli della zona a traffico limitato”, come la chiama Riello, “ovvero una cerchia che tiene in mano l’associazione pur senza aver mai dimostrato d’essere in maggioranza né tantomeno fatto un conteggio credibile del reale numero degli iscritti”, avrebbero dovuto indicare il suo nome fra i candidati. Niente da fare. Per indurlo a ritirarsi hanno persino messo in circolazione un velenoso dossier sul suo conto. L’Assindustria veronese non è una robetta da niente: con la gemella vicentina ha in mano la società Athesis, che controlla i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza e Brescia Oggi, tre televisioni, tre testate free press, una concessionaria di pubblicità, una radio e la casa editrice Neri Pozza. Quindi una gallina dalle uova d’oro nella galassia di imprese che, con l’Editoriale Il Sole 24 Ore e l’Università Luiss, garantisce a Confindustria 520 milioni di fatturato annuo in aggiunta ai 506 milioni di ricavo delle quote associative».
Ma quanto si paga per iscriversi?
«Non si sa. Non vi è trasparenza, non sono mai stati resi noti i dati per ciascuna provincia, non vi sono consuntivi. Pare che ciascun imprenditore versi 150 euro l’anno per dipendente. Dividendo i ricavi per i 4,9 milioni di lavoratori, vengono fuori 103 euro pro capite. Penso che la media sia sui 120. Franco Moscetti della Amplifon pagava circa 150.000 euro l’anno. Alla fine del 2009 ha restituito la tessera e se n’è andato sbattendo la porta».
S’era stufato di farsi mungere.
«È il nocciolo del problema. Il 90% dei contributi raccolti da Confindustria proviene da imprese di piccole e medie dimensioni, che nel loro insieme versano circa 450 milioni di euro. Il 6% arriva dai grandi gruppi privati. Il restante 4% dalle aziende statali: Eni, Enel, Poste, Ferrovie, Finmeccanica. Il malumore dei piccoli nasce da questo: mantengono l’organizzazione ma si sentono come le mucche che non hanno alcuna voce in capitolo sulla destinazione del latte».
Lei sostiene che Confindustria fa prevalentemente gli interessi dei grandi. A me pare giusto così, visto che la Fiat, con 198.348 dipendenti, versa la bellezza di quasi 30 milioni di euro.
«A parte che probabilmente non ne versa più di 20, resta il fatto che la Fiat dovrebbe pur sempre contare solo per un 4%. Invece fa la parte del leone. Pensi al peso esercitato da Confindustria sul governo nelle trattative per la cassa integrazione o per gli incentivi alla rottamazione. Ma un euro dato all’auto significa un euro tolto a qualcun altro».
«Da quando noi siamo alla Fiat, la Fiat non ha mai ricevuto un euro dallo Stato», ha smentito Montezemolo al Tg1.
«E io smentisco Montezemolo. Quando lui era già presidente, la Commissione europea autorizzò l’Italia a concedere 44 milioni di euro alla Fiat. Il favore allo stabilimento di Termini Imerese fu rubricato alla voce “programma di formazione triennale” perché la Ue vieta gli aiuti di Stato. Per carità, Montezemolo può continuare a fare come Bill Clinton, che sosteneva che non c’era stato rapporto sessuale con la stagista Monica Lewinsky in quanto la fellatio non è assimilabile al coito».
Dove vuol arrivare Montezemolo?
«Vuol fare politica, ma la farà solo da vincente. Per ora ha messo sul tavolo da gioco una fiche, che è la Fondazione Italia Futura. Certo fa sorridere leggere quello che ha scritto sul suo sito: “Siamo una nazione che troppo spesso tende a cedere alla leggenda consolatoria secondo cui tutti rubano alla stessa maniera. Non è così e lo sappiamo bene”. Sta parlando un manager che fu cacciato dalla Fiat perché accettava denaro ogni volta che presentava il finanziere Gianfranco Maiocco a uno dei grandi capi del gruppo torinese e che davanti al giudice Gian Giacomo Sandrelli si giustificò dicendo: “Ero giovane e ingenuo”».
Ma per fare politica serve un partito.
«Montezemolo può contare su un parterre di amici che vanno da Diego Della Valle a Luigi Abete. Intanto traffica col Grande centro. Non dimentichiamo che quando stava in Confindustria i suoi interlocutori erano Gianfranco Fini, Pier Ferdinando Casini e Francesco Rutelli. Abete è vicinissimo a Rutelli. Caso da manuale, quello dei fratelli Abete, due dei 2.000 imprenditori che vivono a tempo pieno in Confindustria. Con una tipografia che fattura appena 80 milioni di euro, dagli anni Settanta riescono a controllare l’Unione degli industriali di Roma. Si trasmettono le cariche di generazione in generazione. C’era Mariano Rumor presidente del Consiglio quando comandava il loro padre, Antonio».
Lei teorizza che Montezemolo si sia servito del libro La Casta di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo per imporre il «pensiero unico castale», azzerando quel poco di fiducia nella politica che restava in Italia.
«L’ha cavalcato, l’ha diffuso, ci ha fatto convegni. Per questi signori la casta sono sempre gli altri. Ma che cos’è Confindustria, con la sua macchina organizzativa barocca guidata da una classe di mandarini che hanno fatto dell’attività associativa una professione, se non una casta? Presidente, consiglio direttivo, comitato di presidenza, giunta di 220 membri, assemblea di 600 delegati, comitati, sottocomitati, direttivi... E la struttura nazionale è replicata a livello regionale, provinciale, settoriale. Il partito comunista cinese, al confronto, è più snello. Eppure della parola Confindustria non v’è traccia nella Casta».
Perché nessuno prima di lei aveva osato indagare su Confindustria?
«Uno ci fu: Ernesto Rossi, nel 1955, col libro I padroni del vapore. Lo spirito del tempo vuole che Confindustria sia depositaria del bene e che la politica incarni il male. Intendiamoci, anch’io penso che l’imprenditore sia indispensabile al progresso sociale, ma bisognerebbe tornare alla definizione che l’economista austriaco Joseph Schumpeter dava di questa figura: un individuo avventuroso che scommette i suoi capitali in progetti innovativi. Non uno specialista in scatole cinesi e aiuti di Stato. Paradossalmente, e glielo dice uno che non s’identifica col centrodestra, è più imprenditore Berlusconi che non gioca con le scatole cinesi, detiene la maggioranza di tutte le sue società, rischia i suoi capitali, è corretto con gli azionisti, non dà stock option eccessive ai suoi manager, non saccheggia le sue aziende per esigenze personali».
Ma se Confindustria fosse il carrozzone che lei descrive, sarebbe già finita a gambe all’aria da un bel pezzo.
«Nonostante rappresenti soltanto il 35% degli imprenditori italiani, è dal 1910 che Confindustria si comporta come un partito, tant’è che Giovanni Giolitti voleva scioglierla. In piena Tangentopoli ha rivendicato la propria diversità rispetto alla politica, ma nessuno ricorda che nel 1992 l’Assolombarda, l’associazione territoriale più potente, disponeva di fondi neri per finanziare Dc, Pri e Pli. Adesso sta tesserando persino i parrucchieri e gli stabilimenti balneari, ma dovrà sempre di più fare i conti con la rivolta degli associati del Nordest e con le altre 38 organizzazioni concorrenti: 2 per i commercianti, 4 per gli agricoltori, 3 per gli artigiani, addirittura 8 per gli autotrasportatori. E soprattutto con Imprese Italia, una federazione tra Confcommercio, Confesercenti, Confartigianato, Cna e Casartigiani, nata da pochi giorni, che ha dimensioni superiori alle sue: 2,3 milioni di aziende per un totale di 11 milioni di addetti».
Nel libro se la prende financo col «palazzo di specchi, non di vetro» di viale dell’Astronomia, sede di Confindustria.
«Chi lo frequenta ama presentarsi come difensore dell’interesse collettivo. Poi vai a controllare e scopri conflitti d’interesse personale. Matteo Colaninno, vicepresidente fino al 2008 e oggi deputato del Pd, come responsabile delle politiche industriali del Partito democratico avrebbe dovuto fare le pulci al salvataggio dell’Alitalia. Invece è azionista al 20% di Omniaholding, società di famiglia da cui dipende Immsi, holding quotata che partecipa a Cai e tiene le fila dell’operazione. In pratica è socio di minoranza del padre Roberto. Se la cordata Cai avrà successo, incasserà plusvalenze di molti milioni di euro».
Un merito ce l’avrà pure Confindustria.
«Aver rotto i ponti con Cosa nostra. Ma sono dovuto scendere fino in Sicilia per avere la lista, mai resa nota, delle aziende espulse per collusioni con la mafia o per aver pagato il pizzo: 3 a Caltanissetta, 9 ad Agrigento, una a Palermo. Aggiunga 20 dimissioni spontanee a Messina, che hanno anticipato altrettante radiazioni».
Perché tutte queste cose non è andato a raccontarle al Corriere della Sera?
(Pausa di 16 secondi). «Diciamo che non sono ancora andato a raccontarle al Corriere».
Be’, si affretti.
«Mi sono reso conto che questo libro interessa più al centrodestra che al centrosinistra».


E come se lo spiega?
«Il centrosinistra pullula di puzzoni, tutti élite e salotti. Anche a me sarebbe piaciuto entrarci. Ma sono figlio unico di madre vedova».
(496. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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