Esiste soltanto ciò che è comunicabile ed è comunicato: la realtà diventa comunicazione, il più possibile rapida e il più possibile estesa a tutti. Questa verità era stata intuita e descritta dalla grande filosofia tedesca dei primi decenni del secolo scorso, e ciò che allora appariva il frutto delle fantasie di filosofi, oggi è sotto gli occhi di tutti. La deprecabile invasione del nostro mondo privato con le intercettazioni non è una conseguenza dell’uso distorto di uno strumento tecnologico, ma è l’inevitabile risultato del dominio dello strumento tecnologico su noi stessi, dominio a cui non possiamo sottrarci, perché purtroppo è la nostra realtà, e senza questa realtà noi non esisteremmo.
Naturalmente sono giusti, ovvi, umani tutti i metodi e i sistemi che possiamo individuare per difenderci dal dominio della comunicazione, ma, appunto, sono metodi e sistemi di difesa da un attacco che prima o poi finisce sempre per vincere, costringendoci ad arretrare la trincea difensiva. Certo serve a qualcosa il Garante della privacy; certo in Italia la magistratura ha un potere esorbitante con una discrezionalità inaccettabile nell’utilizzo dei mezzi di intercettazione. Quando non c’è distinzione fra una magistratura giudicante e una inquirente, quando carriere e promozioni dei magistrati dipendono dai magistrati stessi, la loro autonomia è totale e si perde qualsiasi principio di controllo.
Sul rapporto fra queste anomalie della magistratura e la pervasività delle intercettazioni telefoniche, Facci sul Giornale ha scritto un articolo perfetto, ricordando anche che negli Usa le intercettazioni sono poco più di seimila, mentre in Italia qualche milione.
Certamente con un’altra magistratura ci sentiremmo più garantiti nella difesa della nostra privacy e dei nostri diritti, ma tuttavia credo si tratti di un riparo che il dominio tecnologico della comunicazione polverizza quando vuole, entrando indifferentemente nella camera da letto del principe Carlo d’Inghilterra come nella stanza ovale del presidente degli Usa, negli uffici del fotografo Corona come in quelli di Fassino. E se da noi sono milioni le intercettazioni, credo che ciò non dipenda solo dall’incontrollabile discrezionalità della magistratura, ma anche e soprattutto dalla sua incompetenza in proposito. È come andare per funghi: c’è l’incompetente che tira su di tutto, e chi sa subito riconoscere il porcino.
Così è potuto capitare che nel cestino sia finito un bel porcino, cioè l’intercettazione Ds-Unipol. Si dice che in essa non ci sia nulla di penalmente rilevante, però sotto l’aspetto della conoscenza storica il fungo raccolto è fra quelli più deliziosi. Bastano poche frasi registrate per farci capire che è tramontato un mondo.
Oggi scopriamo che sono completamente cambiati i rapporti fra le cooperative e gli eredi del Pci. Un tempo la relazione fra la lega delle cooperative e il Partito comunista era organico, nel senso che era sufficiente un funzionario del partito a dare gli ordini e il dirigente della lega obbediva senza tante storie. Il dirigente, poi, era scelto dall’apparato del partito stesso e ciò garantiva sia un controllo capillare delle cooperative in funzione della costruzione di un sistema economico e sociale egemonico (sviluppatosi soprattutto nel centro Italia), sia per finanziare il Partito comunista attraverso i rapporti di interesse tra le cooperative e gli enti locali. Insomma, avevamo la tradizionale cinghia di trasmissione che mandava gli ordini dal partito alle cooperative.
Adesso i colloqui segreti e registrati per la conoscenza di tutti tra D’Alema, Fassino, Latorre e il presidente di Unipol Consorte ci fanno capire che la direzione di marcia di quella cinghia di trasmissione è completamente invertita. Non sono più i dirigenti ds che danno ordine come una volta alla lega delle cooperative ma è il presidente delle cooperative che si pone come soggetto economico autonomo e che usa i dirigenti ds come lobbysti, come sostenitori del suo progetto finanziario. Si è passati da un’organizzazione (quella della cooperative) che obbediva con spirito militare al partito, a una struttura economica che chiede al partito i favori necessari per attuare i propri disegni.
Tutto sommato, un bel passo avanti verso la modernizzazione dei rapporti fra politica e affari.
Stefano Zecchi
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