Contrada condannato a 10 anni L’ex 007: «Qualcuno si pentirà»

È finita com’era iniziata: ritenendolo vicino a Cosa Nostra, senza uno straccio di prova. Bruno Contrada, ex funzionario del Sisde e della Criminalpol, ieri pomeriggio ha incassato l’ultimo schiaffo dalla giustizia italiana con la Cassazione che ha reso definitiva la condanna a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Alla sesta sezione penale della Suprema Corte è bastato pochissimo tempo per avallare le richieste del procuratore generale che, sorvolando sull’assoluta mancanza di riscontri alle parole dei pentiti, infischiandosene delle perplessità espresse nella sentenza del primo processo d’appello, aveva altresì parlato delle responsabilità di Contrada «oltre ogni ragionevole dubbio». Dopo 31 mesi di carcerazione preventiva, e un’odissea giudiziaria durata 15 anni (in un’altalena di assoluzioni e condanne) il super poliziotto torna in prigione, a Santa Maria Capua Vetere. Una vergogna, che il suo avvocato Pietro Milio rimarca così: «Il destino di Bruno Contrada era già segnato da prima che cominciasse il processo». Bruno Contrada paga la colpa di non essere morto, magari ammazzato come tanti colleghi. Paga per aver arrestato chi poi s’è pentito diventando successivamente suo accusatore. Paga per essere arrivato, quando i tempi non erano maturi, a un passo dal catturare Provenzano. Paga perché rappresentava l’ostacolo alle gestione dei collaboranti attraverso la struttura «politica» della Dia. Paga perché, con lui, si sarebbe dovuta chiudere la catena istituzionale collusa con Cosa Nostra e che s’è invece spezzata anzitempo con i processi boomerang al presidente Andreotti (nella doppia versione Palermo-mafia/Perugia-Pecorelli, con annessa l’assoluzione di due 007 del Sisde) e al giudice Corrado Carnevale. Paga perché non può essere che, come dice il procuratore Grasso, il predecessore Caselli non ne abbia imbroccata una. Più semplicemente lo «sbirro» Bruno Contrada paga per aver fatto egregiamente il suo lavoro, come testimoniato da 112 uomini dello Stato (ufficiali e sottufficiali di carabinieri e polizia, funzionari dei servizi segreti, questori, prefetti, politici, sottosegretari, ministri, vedove e orfani di vittime di mafia) a cui la giustizia non ha voluto credere preferendo le versioni di dieci pluripregiudicati per strage, omicidi, traffici di droga e quant’altro. Dichiarazioni che sono sempre risultate tardive, spesso false, mai coerenti, per sentito dire o de relato, anzi de profundis essendo state riferite da persone che essendo passate a miglior vita non hanno potuto confermare né smentire. Mai un riscontro, una prova certa. Su Contrada hanno detto di tutto: che era iscritto a una loggia coperta, e s’è appurato che apparteneva all’ordine del Santo Sepolcro cui è risultato iscritto anche un noto magistrato. Che era un giocatore d’azzardo abituale, quando nessuno l’ha mai visto tenere in mano un mazzo di carte. Che era amico del boss Riccobono, il cui braccio destro Gaspare Mutolo venne arrestato da Contrada e a sopresa scarcerato da un magistrato che anni dopo si ritroverà a condannare per mafia proprio lo stesso Contrada. Verrebbe da elencarli uno per uno gli obbrobri di questo immondo processo, e di quanto ha girato intorno: dalle interpellanze sulle inesistenti fortune accumulate in Uruguay alle bugie del giudice Antonino Caponnetto che arrivò a dire che Falcone, dopo aver interrogato Contrada sul delitto Mattarella, in presenza dello stesso si era pulito le mani sui pantaloni, in segno di disgusto: leggendo gli atti s’è scoperto che a quella verbalizzazione non partecipò Falcone ma un altro magistrato, Paino. Si è indagato per anni sui favori al boss Bontade per via di un porto d’armi che proprio da Contrada era stato revocato. Per non parlare della sua presenza, data per certa, in via d’Amelio: una dozzina di persone hanno testimoniato che quando morì Borsellino, l’ex 007 era invece con loro, in barca. Migliaia di esempi, credeteci, tutti così. In una nota-testamento Contrada oggi lascia scritto: «Quasi al termine della mia esistenza l’ingiustizia degli uomini mi ha inferto questo ultimo colpo. Farò appello alle mie residue forze fisiche e morali per resistere ancora. Sono sicuro che verrà il momento, che forse non vedrò, in cui la verità della mia vicenda giudiziaria sarà ristabilita. Spero che qualcuno si pentirà del male compiuto a me e alle istituzioni».

Lo inchioda l’assioma della «convergenza del molteplice»: dieci pentiti dicono che è mafioso, dunque è mafioso. Così non c’è difesa, c’è solo la galera. Che per un uomo di 76 anni, già collassato in aula al processo d’appello, può significare la morte.
gianmarco.chiocci@ilgiornale.it

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