CONTRO LA STATOLATRIA

A cent’anni dalla nascita di Ronald Reagan, e a trenta dal suo primo storico mandato, per accostare la profonda trasformazione culturale (oltre che politica) che ha interessato il mondo nel corso degli anni Ottanta è necessario richiamare l’attenzione su quella che era la situazione dell’Occidente alla fine degli anni Settanta.
Per quanti rimanevano affezionati ai valori della libertà individuale lo scenario appariva, a dir poco, deprimente. Sul piano internazionale l’impressione generale era che - nonostante le molte difficoltà economiche - l’impero sovietico stesse per espandersi sempre più. Ogni anno si assisteva a un allargamento dei suoi domini: in Asia, in America Latina, in Africa. Ma c’era qualcosa di perfino peggiore, perché era ormai evidente come lo statalismo pervadesse la società europea e quella americana in ogni loro fibra, in ragione di un crescente aumento della tassazione e della regolamentazione. Era stato proprio un presidente eletto per i repubblicani, Richard Nixon, a decretare che le logiche keynesiane basate sull’intervento pubblico avevano ormai vinto e bisognava prenderne atto.
Quando Reagan vince le elezioni presidenziali qualcosa però si spezza, soprattutto perché questo ex attore (già sindacalista su posizioni democratiche) si afferma riproponendo, in buona sostanza, quello che era stato il programma politico di Barry Goldwater, coraggioso quanto sfortunato candidato alla presidenza nel 1964 e sconfitto, in quell’occasione, da Lyndon B. Johnson. L’idea di fondo di Reagan è che bisogna rianimare l’America delle libertà, della frontiera, della libera imprenditoria e della competizione.
Non solo. Egli vince anche in virtù della sua capacità di mostrare come un programma orientato al mercato si sposi perfettamente con la difesa di valori tradizionali (a partire dalla famiglia) e con una netta riaffermazione della tradizione giudaico-cristiana. È chiaro che ai suoi occhi non si tratta solo di sconfiggere l’interventismo dei gruppi di pressione e dei grandi conglomerati industriali protetti, ma egualmente di far comprendere come un certo relativismo nichilista sia incompatibile con una società realmente basata sulla giustizia e sul rispetto dei diritti individuali.
Un noto giornalista americano, Frank Meyer, parlando di «fusionismo» aveva già teorizzato tale incontro tra i valori conservatori e un libertarismo portato a esaltare il mercato. Si trattava, in verità, di riscoprire la cultura che animava i Padri Fondatori e che per lungo tempo, prima del New Deal, aveva spesso orientato la vita pubblica americana. Reagan ebbe l’intuizione di costruire su tali fondamenta il suo progetto politico.
Nei fatti, l’impatto di Reagan sulla società fu notevole e ci furono anche taluni episodi (come il famoso braccio di ferro con i controllori di volo) che fecero comprendere a tutti che si era davvero di fronte a una svolta. Non solo sul piano culturale acquistavano grande rilievo le tesi di Hayek e Friedman, di Nozick e Ayn Rand (mentre il presidente non mancava di farsi fotografare con una copia di The Freeman, un periodico libertario di lungo corso), ma talune importanti riforme - come quelle sul fisco - aprirono la strada a una crescita sostenuta e a un aumento massiccio dei posti di lavoro. È negli anni del reaganismo che in California esplode la Silicon Valley e si pongono le premesse per la rivoluzione informatica dell’economia. Per giunta, sul piano internazionale l’America rigetta ogni complice cooperazione con il Cremlino e, grazie alla propria superiorità tecnico-scientifica, mostra a tutti come l’Urss nei fatti sia un gigante con i piedi di argilla. Il crollo del Muro, nel 1989, è in parte la diretta conseguenza di una politica estera americana che aveva ormai rotto con il passato.
Il reaganismo, non c’è dubbio, ha lasciato dietro di sé anche più di un rimpianto. Nei suoi anni alla Casa Bianca Reagan avrebbe potuto fare molto di più per ridurre la spesa pubblica, che invece è sempre aumentata, e la sua stessa politica estera non è stata priva di ombre. Ma forse è ancor più grave che un presidente così coraggioso (disse che lo Stato non era in grado di risolvere i problemi, perché era divenuto esso stesso «il» problema) abbia aperto la strada a George Bush, frenando lo slancio riformatore e favorendo il rientro nei ranghi.
È però difficile immaginare cosa sarebbe rimasto dell’Occidente, oggi, se trent’anni fa dall’America non fosse partita quella spinta verso le privatizzazioni, le liberalizzazioni e la rivalorizzazione del mercato che, in qualche modo, è stata poi fatta propria da molti altri Paesi, anche nell’Europa continentale.

Ma è chiaro che - come ha mostrato pure l’ultima crisi finanziaria (con il suo intreccio di iper-regolamentazione e irresponsabilità pubblica) - quello che fu il programma di Goldwater, prima, e di Reagan, poi, rimane in larga misura un progetto da realizzarsi. È proprio questo ciò a cui pensano, in un’America piegata dallo statalismo di Obama, gli animatori dei Tea party e i sempre più numerosi sostenitori di Ron Paul. I giochi, insomma, rimangono aperti.

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