Così Bobo si elegge capo del partito di lotta

RomaMa dove vuole arrivare Bobo Maroni? La partita del ministro è doppia, e non semplice. C’è quella col Pdl, che però passa da Bossi e Tremonti. E poi c’è quella interna alla Lega, con un rapporto di conflitto con l’ala di Gemonio, il cerchio di consiglieri di Bossi, che cerca di ridimensionarne il peso in ogni modo. Spesso dà l’impressione di muoversi da solo. Sul referendum, che Bossi ha invitato a disertare, Maroni si è detto convinto sostenitore dei due sì all’acqua pubblica, un tema che «la Lega ha sempre sostenuto», ha detto facendosi portavoce del dna leghista contro i berluscones del Carroccio (e diversamente dal più guardingo Umberto...) e mettendo un po’ il cappello sulla vittoria del referendum, che nel popolo della Lega era più sentito di quanto i vertici non abbiano riconosciuto. Così Maroni si è presentato (anche sbilanciandosi prima del dovuto sul raggiungimento del quorum) come il capo della Lega di lotta (seguito a ruota dall’abilissimo Zaia), contro quella berlusconiana in difficoltà.
Molti sono convinti che stia lavorando per una sua investitura personale, magari a Palazzo Chigi, ma per ora sono ipotesi avveniristiche. Certo è che Bobo è diventato l’attaccante della Lega, quello incaricato di dire le cose scomode (mentre Calderoli è il pontiere), il referente dei mal di pancia leghisti versus il Cavaliere, il dichiaratore ufficiale di ultimatum (quasi sempre tramite interviste agli amici del Corriere...). Il partito è con lui, e le uscite nervose (e che innervosiscono anche Berlusconi) non fanno che consolidarlo nel ruolo di capo operativo del Carroccio, amante del movimentismo senza compromessi.
Gli riescono bene, anche perché certe scottature recenti non sono affatto passate. I suoi fedelissimi raccontano di un Bobo molto irritato per l’immobilismo del premier sugli sbarchi («a parte qualche gita a Lampedusa...»), per l’atlantismo da parata di certi ministri Pdl (Esteri e Difesa), per l’isolamento in cui è stato lasciato nella gestione dell’emergenza profughi. In particolare sembra che Maroni abbia un conto in sospeso con i La Russa. Non solo con Ignazio, ministro della Difesa, ma anche Romano, fratello e assessore alla Protezione civile della Lombardia. Maroni lamenta che, nonostante un accordo per l’accoglienza dei profughi dalla Libia, tutte le Regioni stiano seguendo le procedure «tranne la Lombardia»: «Mi sembra strano che la più grande Regione d’Italia non sia in grado di fare quello che fanno il Molise e la Basilicata».
Qualcosa deve cambiare, perché la popolarità di Maroni, prima alle stelle grazie ai successi con la mafia, rischia un contraccolpo. Su questo il ministro ha avuto da Bossi carta bianca per trattare con Berlusconi un impegno per «farsi portavoce della richiesta di fermare i bombardamenti e lasciare spazio alla diplomazia». Perché se in Tunisia, dove c’è un governo, le coste sono controllate, la guerra in Libia impedisce di prevenire gli sbarchi, quindi va fermata. Se non con la diplomazia, con un blocco navale della Nato.
Maroni è il più «berlusco-scettico» tra i capi leghisti. A gennaio, nel pieno della crisi di governo, aveva spiegato che la Lega era già pronta al voto e che sarebbe stata alleata del Pdl anche (in realtà, volentieri) senza Berlusconi candidato premier. Ma anche con Tremonti ci sono delle ruggini. Sempre Maroni era stato il più duro dopo le amministrative, parlando di una brutta «sberla», termine che oggi Calderoli ripropone per il referendum. È chiaro che Maroni, molto più di Bossi, lavora per un dopo Berlusconi.

Ma Bobo è anche preoccupato per le sorti del suo partito, che vede scosso da molte minacce. Sarebbe già in grado di prenderlo in mano, ma non lo fa. E i suoi gli rimproverano quello che lui rinfaccia a Tremonti: troppa prudenza.

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