Così il lupo Malaparte si prese Virginia Agnelli

In alcune lettere inedite del 1936-37, nuovi particolari della relazione tra lo scrittore e la madre dell’Avvocato. I due avrebbero dovuto sposarsi nell'ottobre 1936

Così il lupo Malaparte  
si prese Virginia Agnelli

Le due lettere di Curzio Malaparte

Virginia cara, sono triste, triste per te: ma pieno di coraggio, di fermezza, di decisione e pieno d’amore come non mai. L’ignobile prepotenza, la sudicia violenza di cui siamo vittime ambedue non deve toccarci, e non ci tocca. Ci fa soffrire, ma non diminuisce in nulla né le nostre ragioni, né la purezza dei nostri atti e del nostro cuore. Ti sono vicino come un fratello può essere vicino a una sorella, come un amante può esser vicino alla propria donna. Tu sei più che una sorella, più che un’amante. Sei Virginia, la donna alla quale ho ormai dedicato tutta la mia vita e alla quale sono pronto, se necessario, a sacrificare tutto me stesso, il mio ingegno, il mio sangue, la mia felicità.
15 ottobre 1936

Le mie due lettere di ieri non ti saranno piaciute, non si può avere tutto del colore e del sapore del miele \. Hai agito come un giorno, molto presto, ti vergognerai d’aver agito. Io rimango al mio posto, sereno e giusto. Io non credo a coloro che dicono che sei una vecchia pazza in mano a un avvocato che ti succhia denari, a coloro che dicono che sei una nota e arcinota iettatrice, la quale porta disgrazia a tutti i suoi amanti, continuerò a ritenerti una donna perfetta, piena di difetti femminili: menzogne, viltà morali d’ogni genere. \ Ormai sei bruciata. Torna a chi vuoi: in qualunque letto sentirai la tua maledizione.
1 giugno 1937

Raccontano i biografi di Gianni Agnelli che «l’Av­vocato» («Mi chiami pu­re così, è un nome d’ar­te» recita una delle sue migliori battu­te) nutrisse un vero e proprio odio nei confronti di Curzio Malaparte. È comprensibile. Non solo era stato il più chiacchierato amante di sua ma­dre, ma aveva anche degli elementi di vanità, narcisismo, esibizioni­smo, insofferenza e impazienza che nel renderglielo simile, andavano in qualche modo esorcizzati. Non c’è niente di peggio che vedere te stesso recitato da un altro: ciò che pensi na­turale ti appare di colpo artificiale, ciò che giudicavi piacevole ti infasti­disce. Come in un gioco di masche­re, scopri che la tua non è così bella come pensavi, e l’unico modo per uscire dall’impasse è fingere che sia di un altro, che sia altro. Nella sede della Stampa , a Torino, nella galleria fotografica dei diretto­ri, la foto di Malaparte non c’è, così come manca quella dei suoi succes­sori s­otto il fasci­smo, Turati e Si­gnoretti.

È una mancanza cu­riosa, perché fu il fascismo a ob­bligare Augusto Frassati,chedel­la Stampa era il proprietario, a cedere il capita­l­esocialeall’allo­ra azionista di minoranza Gio­vanni Agnelli. È doppiamente curiosa se si tie­ne conto che quando,duean­ni fa, il quaran­tenneMari­oCa­labresinediven­neildirettore, fu­rono in molti a direchesitratta­va del­più giova­ne giornalista mai sedutosi alla gui­da di quel quotidiano. Malaparte lo diresse che ne aveva trentuno. Nel catalogo di «stranezze» di ca­sa Agnelli (il papà di Gianni, Edoar­do, eraunviveurdegnodiunroman­zo di Fitzgerald, sua madre Virginia era tanto infelice quanto disinibita, uno dei figli, Giorgio,era schizofreni­co, detestava il fratello maggiore Gianni, addirittura cercò di sparar­gli, un figlio di Gianni è morto suici­da, un nipote ci ha quasi rimesso le penne per una notte brava...) non sorprende che il più talentuoso degli scrittori fra le due guerre vi rientras­senell’otticadiuna liaison dangereu­se tanto chiacchierata quanto, stan­do alle testimonianze del tempo, passionale.

E tuttavia, l’altro elemen­to interessante della famiglia Agnelli è proprio l’imbarazzo con il quale ogni disagio è stato vissuto. Il fattore “aristocratico” in qualche modo lo alimentava, quello borghese lo re­spingeva, lo soffocava, lo negava. Giovanni Agnelli senior, il senatore, il capostipite, l’emblema sabaudo e un po’ bigotto di un modo di essere e di comportarsi, è la stessa persona che ingaggerà con la nuora Virginia lo scontro per la potestà dei nipoti già dopo la morte del figlio Edoardo e poi durante il legame con Malapar­te: glieli vuole togliere,ne teme le stra­nezze, non ne approva il modo di vi­­vere, detesta quello scrittore che lo sfida e gli tiene testa...

Dalle lettere, alcune inedite, che il mensile GQ adesso pubblica, scritte fra il settembre del ’36 e il giu­gnodel’ 37, quando il legame si inter­ruppe, viene la conferma di ciò che già si sapeva: fu amore, si giunse addi­rittura a un passo dal matrimonio... Naturalmente, il tipo di amore che uno come Malaparte poteva dare e una come Virginia ricevere. Le missi­ve sentimentali non erano il forte del primo, «l’incultura trionfante» della seconda, stando alla bella definizio­ne di Maurizio Serra, ultimo e defini­tivo biografo malapartiano, non le permetteva grandi confessioni scrit­te... E così,da parte di lui:«Ti sono vi­cino come un fratello può essere vici­no a una sorella, come un amante può essere vicino alla propria don­na »;«mi piange il cuore a saperti sola e triste in una casa dove si manca di rispetto persino ai tuoi bambini». E ancora: «Prima lottavo per la schifo­sa politica, oggi lotto per una causa santa, per una donna che amo». Il legame sentimentale era però anche una questione politica, e il fa­scismo teneva di più ad Agnelli e alla Fiat che non a un Malaparte fresco di confino. Così, la lotta era già persa in partenza, anche se lo scrittore con il vecchio senatore faceva finta di no: «Io non ho nessuna paura né dei suoi soprusi né dei suoi milioni. Ne ho dato prova anche recentemen­te, quando Ella ha tentato invano, e più volte, di intimidirmi e di cor­rompermi ».

Finì come finiscono le storie d’amore, la stanchezza prima, lei con un altro,

poi, lui che alla fine im­preca: «In qualunque letto senti­rai la tua maledizione». Anni dopo si consolerà scriven­do: «Le sole donne che vale la pena di sposaresonoledon­ne molto povere». Preferì però morire scapolo. 

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