«Così Milano è diventata Lodolandia»

Un «elettricista» al Castello Sforzesco. Così nella cripta viscontea si accende una luce, la luce di Marco Lodola. Un po’ luna park (da non confondersi con il «Luna Pac» di Luigi Serafini), un po’ addobbi natalizi. Così appaiono le «pittosculture» di Lodola: uno che sognava di diventare una rockstar («Meglio per il rock che Marco abbia deciso di darsi all’arte», scherza Red Ronnie) e che alla fine ha scoperto di aver un futuro - anzi, un neofuturismo - in queste adrenaliniche scatole luminose che ti trasmettono gioia e voglia di vivere.
Anche lui, a volte, resta ipnotizzato dalle televendite delle sue opere: «Quelli di Telemarket sono dei bravi imbonitori - ci racconta Lodola -, apprezzo il loro lavoro e diffido di chi vuol relegare l’arte nel chiuso dei musei». E poi: «Un critico, pensando di offendermi, ha definito il mio lavoro “trucido laccato”, un altro mi ha chiamato “artista tamarro”, altri ancora mi hanno definito “kitsch” o “trash”: termini che a me piacciono moltissimo». Una solo aggettivo lo manda in bestia: «concettuale». «Ho sempre odiato gli artisti che hanno bisogno del libretto di spiegazioni da affiancare al loro lavoro, io preferisco sporcarmi con i colori o prendere la scossa con i miei fili elettrici». Neon e sagome colorate (con pin up plastificate che risultano incredibilmente sexy) che fino al 16 settembre seguiranno un doppio percorso espositivo: venti opere al Castello Sforzesco e altrettante mega opere lungo il cuore di Milano che palpita tra via Dante, piazza dei Mercanti, corso Vittorio Emanuele e piazza San Babila.
«Un modo come un altro per dare luce a una città spesso buia come Milano», dice Lodola scambiandosi i complimenti con l’assessore Sgarbi che - dopo averne esaltato le virtù - lo bolla con un spassoso «culattone raccomandato», perché Lodola (al pari del Trio Medusa delle Iene) è riuscito a evitare la naia.
Lodola, in versione ambrosiana, fa i complimenti agli elettricisti (quelli veri) che stanno collegando le sue artigianali «luminosine», ma forse già rimpiange la sua fattoria-laboratorio «affogata tra nebbie e zanzare nella bassa pavese», come l’ha descritta il suo amico Luciano Ligabue.


Ma chi sono gli ispiratori del genio pop di Lodolandia? «Il Novecento francese, la luce di Renoir, la scomposizione di Seurat, Balla futurista, Depero». Ma anche, e soprattutto: «I Rolling Stones, i Clash, i Led Zeppelin, Sivori, Platini e Del Piero». Per chi immagina - nello stadio dell’arte - di andare in gol con una punizione a foglia (o a natura) morta.

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