Il credente non è un uomo di serie «B»

Leggo su Repubblica una bella intervista a Philip Roth, il celebre scrittore di origine ebraica autore tra l’altro di Pastorale americana e de La macchia umana. L’intervista è tutta centrata sulla sacrosanta paura che il romanziere prova per l’avvicinarsi della morte. Il che, naturalmente, non può non tirare in ballo Dio. Ma non sono le opinioni di Roth in materia religiosa a interessarci, qui, bensì il presupposto - indiscusso e indiscutibile - che fa da base agli argomenti dello scrittore e alle (blande) obiezioni dell’intervistatore.
Il presupposto, largamente condiviso nelle società ricche, è che la fede sia essenzialmente qualcosa che una persona si dà, una sorta di appoggio psicologico, un conforto, perché «uno a qualcosa si deve pur attaccare» per riuscire a far fronte alla marea, allo tsunami dell’esistenza. Questo bisogno di proiettare le proprie difficoltà in una dimensione superiore, personale (cristianesimo, islam) o impersonale e cosmica (buddhismo), che offra una ragione per vivere il duro presente, l’idea di un destino, di una provvidenza, di un premio finale, oppure l’iscrizione delle nostre vicende all’interno di un ordine universale - ebbene: tutto questo viene considerato giusto, comprensibile, umano.
Resta ben salda però la persuasione che la religione sia una necessità per i deboli. Chi vuole vivere la vita magari soccombendo ma, per così dire, col vento in piena faccia; chi in altre parole vuole vivere la vita fino in fondo, bevendo fino all’ultima goccia dal suo amaro calice, ebbene: gli uomini così non hanno nessun bisogno della religione. Una volta accettato questo presupposto ormai tacito, si può benissimo valorizzare la religione, si può discutere della Chiesa e del Papa, trovare parole di apprezzamento, comprenderne l’autorevolezza morale e (soprattutto) l’importanza politica. Si potrà addirittura difendere l’importanza delle istituzioni religiose di fronte ai loro detrattori - ma sempre per ragioni sociologiche, politiche, etiche, ragioni che con la fede non hanno niente a che fare, perché il giudizio sulla fede è già stato dato. Così, il credente resta un uomo di serie «B», magari bravo e generoso, intelligente anche, ma dalla mente ristretta. E quando tra le file dei credenti si fa strada un uomo di prim’ordine, il sospetto è che sia solo un attore, che reciti - nobilmente - allo scopo di reggere un apparato che senza di lui crollerebbe.


Preferiamo, insomma, considerarci soli a lottare senza speranza contro un universo buio, piuttosto che rinunciare al nostro orgoglio e ammettere la possibilità, niente più che la possibilità, che qualcosa di «altro» da noi si possa presentare, imprevedibilmente, nel cosmo e nella storia, pronunciando un’impossibile parola di Bene.

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