Questo è il tempo propizio per tornare a parlare dell’uomo. Non al modo dei filosofi, ma nel concreto di questi mesi, giorni e ore. Dentro le nostre occupazioni. Guerre di cui non conosciamo la vera causa insanguinano il mondo. Intere famiglie sterminate senza un motivo apparente («soffriva da anni di depressione»). La crisi finanziaria che avanza e appesantisce ogni sviluppo o crescita economica. La politica che si svuota sempre più e, non possedendo la forza culturale e morale per affrontare il Paese, rischia di occuparsi soltanto di se stessa.
Dietro le operazioni finanziarie, dietro le scelte politiche, dietro i dilemmi di un direttore del personale, dietro l’etto di prosciutto, dietro qualunque cosa si avverte sempre di più l’urgenza di affrontare la questione del fattore umano. Chi fa le leggi? Chi preme i bottoni? Chi è il mio panettiere? Chi tiene in mano le redini delle banche, delle grandi aziende, delle grandi istituzioni?
Vorrei, con queste osservazioni, comunicare l’urgenza del tema, e presentare il libro che me le ha suscitate. Un libro che saremmo tentati di relegare tra i libri «religiosi», e che pone una domanda radicale al nostro tempo e al nostro modo di starci, alle risposte che ci diamo ma anche al modo in cui ci poniamo le domande. Il suo autore, don Luigi Giussani (1922-2005), è noto a tutti di nome, ma lo è ben poco nella forza dirompente del suo pensiero. La lettura senza pregiudizi de La familiarità con Cristo (San Paolo, pagg. 216, euro 14,50, prefazione di Julián Carrón) ci aiuta a incontrare questo pensiero.
«Il pensiero fiorisce quando abbiamo la cosa davanti agli occhi» diceva Martin Heidegger. Il pensiero nasce sul presente, sulla sollecitazione della vita. Il resto è archeologia. Nessun uomo, nell’ultimo mezzo secolo, ha incarnato questa scandalosa verità (perché il pensiero si scandalizza non appena scopre il suo vuoto ultimo) meglio di don Giussani.
«Si chiama fede l’intelligenza umana quando, rimanendo nella povertà della sua natura originale, è tutta riempita da altro, poiché in sé è vuota, come braccia spalancate che non hanno ancora da afferrare la persona che attendono».
La fisicità dei termini usati («afferrare») ci avvicina alla drammaticità del pensiero di Giussani. È un’urgenza essere uomini. Le parole dei filosofi non bastano all’urgenza che si ripresenta tutte le mattine, al suono della sveglia. Perché il problema della vita non è, innanzitutto, decidere se Dio esiste o no, ma l’alzarsi dal letto con un motivo serio.
La cosa davanti agli occhi di cui parla Heidegger è, per don Giussani, Gesù Cristo. Ma dirlo così risulterebbe ambiguo se non seguissimo il cammino con cui ce lo presenta.
Il libro contiene una serie di meditazioni che si svolgono durante l’anno liturgico. Avvento, Natale, Quaresima, Pasqua, Pentecoste, Ascensione. Ora, tutti più o meno abbiamo il nostro anno liturgico fatto di settimane bianche (avvento), regali (natale), diete e palestra (quaresima), vacanze più o meno esotiche (pasqua) eccetera. Tutti abbiamo i nostri rituali, i nostri scongiuri, tutti diciamo in un modo o nell’altro le nostre preghiere, religiose o laiche o mistiche o blasfeme che siano. Tutti, consapevolmente o no, ci prepariamo sempre a qualcosa.
In questo senso, nessun pensiero è più controcorrente di quello di Giussani. Non perché parla di religione, ma perché lega ogni azione all’io che la compie. Oggi si cerca l’opposto. Perfino la preghiera (chiamiamola meditazione, o star soli con se stessi ecc.) e il digiuno (chiamiamola corretta alimentazione, o dieta ecc.) sono delle pratiche per una buona salute psicofisica. Ma l’io non c’è, non è necessario.
Giussani, viceversa, getta queste cose addosso all’io, inchiodandolo alla sua libertà. Per cui, ad esempio, sacrificio e digiuno si realizzano nella «fedeltà al più significativo nella cosa. Nel mangiare e bere ciò che è più significativo è che essi sono strumenti per il nostro cammino, non è l’abboffarsi...». Non c’è azione che si possa dire umana senza l’implicazione personale, ragione e libertà.
L’insistenza sulla persona è sempre centrale, ma lo è soprattutto oggi. Perché siamo una società depressa, in crisi di motivazioni: non ci piace più studiare, non ci piace lavorare, e dalla politica non ci aspettiamo più (per fortuna) nessuna salvezza. Ci alziamo la mattina, perché? Per fare soldi? Per mostrarci alla guida del nostro Suv? Per vederci di nascosto con l’amante?
La crisi che stiamo attraversando, prima che finanziaria, è una crisi del desiderio, una crisi delle domande, o, come lo chiamava don Giussani: un «dissesto dell’io». Noi chiamiamo «Dio» la risposta alle nostre attese, ma se non attendiamo più niente che ce ne facciamo di Dio, di qualunque Dio?
Perciò Giussani non si stanca mai di esortare i suoi amici - cioè tutti quelli in cui s’imbatte - al rapporto con la realtà, alla concretezza del vivere, alla passione per l’imprevisto, perché sa che solo il rapporto serio con la realtà desta le domande, e che l’uomo, lasciato solo (magari col pretesto di un mal inteso rispetto umano), si richiude e si spegne.
Solo così Cristo si rende incontrabile nella sua forza incendiaria. Il solo paragone umano è quello dell’innamoramento, del «contraccolpo che il cuore di Maria deve aver sentito (...) tutte le volte che prendeva coscienza di quello che era accaduto, di quello che aveva addosso», perché «ciò che era accaduto si palesava come qualcosa che bruciava anche la coscienza dell’attesa, che in primo luogo non era risposta all’attesa, ma era una presenza invadente».
Come ha ragione Heidegger! Il pensiero nasce da una presenza invadente, che cambia tutto, anche i nostri ragionamenti sulla fede, resi d’un tratto irreali «come i ragionamenti là dove uno stesse mangiando a quattro palmenti una buona cosa con molta fame, o come se uno pretendesse di ragionare in un abbraccio».
Familiarità con Cristo non significa abitudine, ma il contrario. Il bambino non si abitua mai al volto della madre. Essere uomini, per don Giussani, significa fare lo stesso. Ma da adulti, al timone della nostra vita, nella tempesta di tutti i giorni.
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