Il momento è difficile: stiamo attenti a non berci il cervello, come dicono i nostri figli. Tutti hanno capito che la questione è la crescita e quindi la competitività della nostra economia. Cerchiamo perciò di essere coerenti nella scelta dei mezzi per questi obiettivi.
Sulle rendite finanziarie e la tassazione corrono gravi equivoci. Chi nega l'esigenza di razionalizzare l'imposizione su diverse forme di risparmio? Ma il problema non sta nelle «rendite finanziarie», che sono appunto le remunerazioni del risparmio investito in titoli pubblici e privati. Quello che conta è la distinzione tra profitti e rendite in senso proprio: differenza che riguarda la loro diversa destinazione rispetto all'accumulazione di capitale (materiale e immateriale) come motore della crescita. In teoria i profitti, che remunerano l'iniziativa imprenditoriale, vanno (dovrebbero andare) a finanziare l'investimento. Questo, beninteso, se il consumo dell'imprenditore e del management è così relativamente basso da essere trascurabile.
I profitti sono dunque un surplus investibile, se sono investiti nella produzione. Altrimenti, dal punto di vista dello sviluppo (oggi, per noi, della competitività e dell'innovazione), sono esattamente come le rendite: prendono un'altra strada, sono risorse sottratte all'investimento. A loro volta, le cosiddette rendite finanziarie possono non essere affatto «rendite» in questo senso. Sul mercato dei capitali esse sono semplicemente il prezzo del risparmio incanalato al finanziamento dell'investimento di cui hanno bisogno le imprese e, senza dissennatezze (è possibile?), il settore pubblico dell'economia. Questo mercato dei capitali finanziari, di fatto globalizzato e tutelato dalla stabilità monetaria (ecco un vantaggio dell'euro e dei tassi d'interesse a livelli bassissimi), è estremamente concorrenziale. Dov'è allora la rendita, nelle rendite finanziarie?
Per risalire la china della competitività e per dare una spinta alla crescita abbiamo bisogno di attrarre, nelle diverse forme, capitali dall'estero. Pensiamo forse di incoraggiare l'afflusso di investimenti dall'estero, o piuttosto di stimolare il deflusso di risparmio italiano verso l'estero, buttandoci sulle rendite finanziarie (che sono finanziarie sì, ma non rendite)? Se dobbiamo sparare nel mucchio, fra consumo, produzione e rendite finanziarie, chiunque sarà disposto a dire che non c'è scelta. Per compensare l'Irap, anche se non basta e ce ne manca, non resta che colpire le «rendite finanziarie». Fa anche effetto ed è come chiedere a un bravo figliolo se vuol bene alla mamma.
Aumentare l'Iva, in questa fase, non sarebbe molto intelligente, frenerebbe i consumi: anche se la nostra crisi, strutturale e non congiunturale, è dal lato dell'offerta, cioè della competitività, non da quello della domanda. Ma spostare un po' il carico fiscale dalla tassazione diretta del reddito a quella indiretta (cioè sulla spesa, che è l'unica indiscutibile manifestazione del reddito) non sarebbe poi così stupido. Se si vuole mirare a ciò che giova oppure non giova alla competitività e alla crescita, sullo spartiacque tra profitti e rendite, anziché sul risparmio non converrebbe invece spostare il peso su certi consumi di lusso, per beni in gran parte di importazione e a domanda rigida (tanto più richiesti quanto più sono cari, come status symbol)? Nel mare dei sociologismi da strapazzo, la Teoria della classe agiata di Veblen insegna ancora qualcosa. Per non parlare, poi, di attività sommerse e di evasione fiscale - un numero di Economy dell'aprile corso è molto istruttivo al riguardo - strettamente correlate con l'eccesso di pressione tributaria e contributiva (il famigerato «cuneo»).
Sembra però di tornare ai tempi, per la verità mai morti, in cui le bestie nere erano almeno le «rendite parassitarie», con il sottinteso che parassitarie fossero quelle degli altri. Non le mie: le tue. Rimane il problema di un'economia e di un capitalismo dove le rendite - quelle vere, soprattutto quelle «di posizione» - prevalgono sui profitti (quelli veri, basati sul rischio d'impresa). Un panorama di ostacoli che si distende dai prezzi dei farmaci al costo dei servizi, alle public utilities, tanto per citare qualche caso. Ma la rendita nasce dall'offerta rigida di qualche fattore della produzione: in sostanza, da monopoli «naturali» o legali, barriere all'entrata, mancanza di concorrenza, eventuali dazi compresi. È evidente che cosa bisogna fare.
Infine, come asseriva un po' brutalmente Maffeo Pantaleoni, le scuole di pensiero in economia sono soltanto due: quella di chi la sa e quella di chi non la sa. Ma preoccupa una impressionante attrazione del pensiero magico rispetto a quello razionale. Anche sulle rendite finanziarie, come del resto sull'euro o addirittura sul «Dio Denaro», in fondo la si avverte. A naso.
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