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Accusano i social più di chi molesta le ragazzine

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F a sempre comodo trovare un responsabile per scagionare colpe individuali o omissioni da parte di chi è istituzionalmente preposto a vigliare. Adesso il nuovo mostro che s'aggira per il mondo è Facebook con tutto il suo contorno di connessioni web. La ragazza aggredita desta sospetto, le si rimproverano sbadataggine e superficialità. La sua vera colpa? Essere una ragazza al passo con i tempi, che usa gli strumenti informatici della comunicazione, proprio come i giovani d'oggi.

Non c'è dubbio che siamo più vulnerabili, perché più facilmente rintracciabili, riconoscibili anche da chi non ci ha mai visto realmente in faccia. Sappiamo che ogni giorno ci sono attacchi spionistici informatici che aggrediscono perfino uno Stato, e vogliamo allora immaginare che nel nostro privato si riesca a rimanere immuni da modesti spionaggi che informano a che ora si prende il treno o si va a cena?

La ragazza aggredita è vittima di una violenza antica contro gli inermi, contro le donne. La vigliaccheria non è figlia della nuova società mediatica, è sempre quella che pratica chi non sa cosa significhi il rispetto verso una donna, verso chi è indifeso. E complici di questa viltà sono coloro che scaricano le responsabilità sul tentacolare mondo informatico per non guardare in faccia le proprie inadempienze.

Non sono Facebook o altro a dover essere messi sul banco degli imputati del nostro tempo, ma una complessità mal gestita, cioè quella dell'aumento dei reati. Date la colpa a chi volete, agli immigrati, ai disoccupati, ai tossicodipendenti... quello che piace a voi, ma chi ha la responsabilità dell'ordine pubblico non faccia lo struzzo e guardi bene questo mondo sempre più rischioso per la gente per bene.

C'è necessità di adeguare la prevenzione e la repressione dei reati alla nuova realtà, in cui l'informatizzazione della comunicazione ci rende molto più vulnerabili di una volta. Ma non si corre ai ripari tornando indietro.

Facebook, Instagram, tutto l'universo delle chat sono un nuovo linguaggio, di cui non si comprende ancora bene il significato, cioè un significato che va oltre la semplice comunicazione: dice di più, dice anche quello che non si vorrebbe raccontare. Facebook è un linguaggio come un abito che s'indossa. Un vestito non è soltanto un indumento che serve per coprirsi, è un linguaggio, è il linguaggio che si vuole che il corpo comunichi. Non mi dilungo: il filosofo Roland Barthes ha scritto in proposito pagine importanti. Oggi Facebook è come un abito: ancora più complesso nella sua comunicazione di ciò che è un vestito. È l'abito della mente: avvolge sentimenti, pensieri che parlano di noi molto più di quello che supponiamo. Svela ciò che si suppone non detto.

Questo comporta, è chiaro, molta attenzione nel modo di usare la comunicazione informatica.

La grande disinvoltura con cui se ne servono i ragazzi può essere una trappola, e ci vorrà del tempo perché questo tipo di linguaggio possa essere adoperato, comprendendo bene i suoi effetti. Ma, al di là di questo, ci sono responsabilità oggettive per quanto riguarda atti di violenza e loro repressione, che non possono essere nascoste con l'alibi dei nuovi mezzi informatici.

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