Cronache

Il nostro maestro con la valigia aperta: cacciatore di notizie da Vienna agli Usa

Addio direttore. Il nostro maestro con la valigia aperta. Cacciatore di notizie da Vienna agli Usa

«C'è qualcuno interessato ai fagiani?». La domanda, gentile nel tono della voce con l'eleganza di quell'erre che gli apparteneva da sempre, coglieva d'improvviso noi redattori straniti e chini sulle macchine per scrivere, al piano quinto. Livio portava il trofeo della sua domenica di caccia, il sovrannumero delle sue esigenze veniva messo a disposizione di quella banda di pazzi che alimentavano il Giornale negli anni belli e oggi ancora più lontani. I fagiani erano riposti a frollare sul davanzale, nessun rischio di furti, al massimo di piccioni pirata. Livio Caputo è morto da direttore, in fondo un desiderio tenuto nascosto per tutta la carriera, scrivendo da ogni dove e con lo stesso stile che segnava i giornalisti e gli inviati di quell'epoca. La sua presenza significava o un giorno di riposo o il passaggio veloce per una nuova trasferta in giro per il mondo. Del resto la sua nascita faceva presagire un'esistenza itinerante, era nato a Vienna ma prese ad amare Torino e il Piemonte che era la terra d'origine del padre mentre sua madre veniva dalla Sicilia, dunque c'erano nebbia e sole anche nel suo carattere che non concedeva sconti, mai scadendo nell'arroganza o nella superbia ma sapeva difendersi con gli spigoli che gli furono utili come inviato in ogni parte del mondo, a intervistare capi di stato e a riferire di figure che la televisione non illustrava ancora, mentre, ovviamente, il computer apparteneva ai marziani. Livio si era laureato in giurisprudenza all'università di Torino, la facoltà di via Po era stata appena restaurata e il rettore, duro e acido come mai nessuno prima e dopo, epperò durante, si chiamava Mario Allara. Dividevamo, pur per epoche differenti, molte memorie di quelle aule e di quei docenti, tra tutti Giuseppe Grosso, professore di storia del diritto romano, poi eletto sindaco della città. L'amore per il giornalismo fu quasi naturale nel tempo in cui le gazzette, a parte i giornali radio, erano il solo appuntamento per leggere notizie e, assieme, gli approfondimenti. Il tragitto del dottore in legge non si fermò sotto la mole Antonelliana, prese a girare non soltanto le redazioni ma le stazioni ferroviarie e gli aeroporti, come era uso per chi avesse voglia di avventurarsi in un mestiere oggi ormai svanito, furono Bonn, Londra, New York, fogli quotidiani e riviste periodiche, la firma di Caputo era conosciuta, riconosciuta, riconoscibile. Arrivò a il Giornale Nuovo quando, con Indro Montanelli direttore, la macchina era guidata da Gian Galeazzo Biazzi Vergani. Era il giornalismo che seguiva i lanci dell'Ansa, l'inviato teneva la valigia pronta come il personale viaggiante e Livio non aveva domicilio fisso, amava scrivere e leggere, viveva da indipendente ma capace di trasmettere sensazioni e simpatie, le battute di caccia gli servivano per liberarsi dal quotidiano, prese ad amare lo sport, nell'ultimo sabato di questo maggio, Pierluigi Bonora, amico e collega illustre del settore motori del Giornale, si trovava a Firenze insieme con i lettori, a parlare e spiegare il nostro strambo lavoro e il mondo specifico delle automobili, quando ebbe l'idea di coinvolgere Livio per un saluto telefonico: «Con piacere, però chiamami prima che incominci la finale di Champions league». Si era appassionato al football, seguiva le partite, leggeva i resoconti, dialogava dell'Atalanta con Ariel Feltri che ha a cura la pagina dei lettori, un'altra tappa del viaggio di Caputo. Pierluigi avvicinò il telefonino al microfono e il Direttore ritrovò la voce dei giorni giusti, arrotando ancor di più la erre, con una serie di parole si dichiarò felice di salutare chi ancora crede nella nostra avventura e ci segue e ci legge. Era fiero di sentirsi e di sentire. La malattia lo affliggeva in ogni parte del corpo, i medici gli avevano prospettato l'ipotesi dell'amputazione di una gamba, da tempo gli era di conforto di sostegno Adele Perego, segretaria di mille cose e di mille nostri guai e fetta dolce di quel Giornale antico. Livio non aveva smarrito il carattere tosto di un viennese emigrato nel mondo, però, con il tempo feroce e il male aspro, si era arreso, il ricovero in ospedale è stato il suo esilio nel quale nessuno poteva entrare se non avvicinarsi con la voce. Infine aveva capito che non c'erano più domeniche per andare a caccia.

Il davanzale di via Negri è vuoto di fiori e di fagiani.

Commenti