Politica

Alleati di ieri e traditori di oggi

Troppi segnali per non fiutare la trappola

Alleati di ieri e traditori di oggi

L'immagine, che molti hanno trascurato l'altro giorno a Palazzo Madama, è di quelle che restano vivide nella memoria. Mario Monti e Giorgio Napolitano che lasciano insieme l'Aula del Senato, bofonchiando contro quell'impertinente del presidente del Consiglio. E Pierferdinando Casini che tenta un'impossibile mediazione sull'Europa. In breve, i congiurati del complotto del 2011 anti Berlusconi schierati contro quell'arrogante e, a parer loro, irriconoscente di Matteo Renzi, che oggi - per uscire dal cul de sac dove è finito - riecheggia molte delle tesi del Cavaliere sull'Ue. Il «Gianburrasca», per usare l'autodefinizione che il premier dà di se stesso, ha preso coscienza della sua tragedia: se accetterà i consigli e le lezioni in tedesco di Napolitano e Monti, la sua fine è segnata; se si ribellerà a quelli che si considerano, a torto o a ragione, i suoi padri putativi, dovrà vedersela con gli stessi poteri che hanno condannato Berlusconi. Per dirla tutta: o Renzi asseconderà in futuro chi vuole trasformarlo in un nuovo Pétain come Monti, consumando una politica rispettosa delle logiche di un'Ue a trazione tedesca, la stessa a cui Napolitano costrinse il suo discepolo prediletto, Enrico Letta, portandolo al divorzio con il Paese; o dovrà ribellarsi alla politica dell'Europa dell'austerity, dei parametri Ue, del bail in o del fiscal compact, assumendosi un grande rischio a Bruxelles e sperando in una miglior sorte rispetto a quella del Cav nel 2011.I nodi sono venuti al pettine. Il dilemma è aperto. E il personaggio, che ha uno spiccato istinto di sopravvivenza, al Senato ha dimostrato di aver fiutato la trappola, ha capito. Sia pure obliquamente, senza fare i nomi, ha detto molte verità che in questi anni i vincitori di allora hanno sepolto sotto la coltre dell'ipocrisia. Ha ricordato ai cultori dei «compiti a casa» di Bruxelles che «dal 2008 a oggi (inserendo anche gli anni del governo del Cav, ndr) come capacità di contenimento del debito, tra i 28 Paesi dell'Ue l'Italia è il terzo, dopo Olanda e Germania». Ha detto senza mezzi termini che la politica europea degli ultimi otto anni è stata sbagliata raffrontandola con quella degli Usa: «La politica di Obama ha portato a una disoccupazione più bassa e a una crescita più alta. Quella europea ha visto la disoccupazione crescere e la situazione economica complessiva non crescere a sufficienza». Berlusconi lo teorizzava nel 2011. Ha osservato che il problema delle banche in Europa riguarda innanzitutto «la prima e la seconda banca tedesca», che Berlino non può mettere sul banco degli imputati gli istituti di credito italiani per avere in corpo titoli di Stato, quando Deutsche Bank e Commerzbank sono zeppe di derivati e titoli tossici. Ha rinfacciato alle banche del Nord Europa di avere venduto nel 2011 i nostri Bot: cioè, la pugnalata con cui, secondo il Cavaliere e Brunetta, Berlino innescò il dramma dello spread. Addirittura ha minacciato veti, come il Cav di allora. Questo per gli avversari esterni, ma il premier non ha risparmiato sia pure parlando un linguaggio velato e senza fare i nomi, neppure «i congiurati» del 2011 di casa nostra: «Se in passato, per responsabilità diffuse, abbiamo in alcuni casi pensato di poter utilizzare l'Europa anche all'interno del gioco politico italiano, guardiamo la realtà per quella che è adesso...». E ha messo in croce il circoletto dei «compiti a casa»: «Non possiamo accettare un disegno su noi stessi, che è stato fatto, talvolta a scopo pedagogico, da una parte della classe dirigente del Paese». Per capire a chi si riferisse bastava guardare i volti lividi di Napolitano e Monti.Ma perché Renzi si accorge ora di tutto questo? Semplice: perché ha capito di essere candidato allo stesso patibolo del Cav. I segnali sono molteplici. Nella stampa il Financial Times gli dà il benservito e il Corrierone comincia ad azzannarlo nei fondi. Nell'establishment i poteri forti si fanno più freddi e la Corte dei conti sbeffeggia la sua spending review. Nelle aule parlamentari i grandi vecchi lo guardano in cagnesco e personaggi attenti a fiutare l'aria dopo due anni di schiavitù si ribellano, come Casini che sulle unioni civili scopre che il «canguro» - l'espediente con cui il premier ha portato a casa riforma costituzionale e legge elettorale - è un obbrobrio.La presa di coscienza, però, non basta. Per salvarsi il premier ha bisogno di un'operazione verità. Deve convincersi che la flessibilità in Europa non può essere utilizzata per dare mance elettorali in Italia (dagli 80 euro ai buoni cultura per i diciottenni). Deve contenere la sua bulimia di potere, incompatibile con un Paese democratico. Deve avere il coraggio di rileggere la storia del 2011, la stessa che potrebbe riproporsi nel 2016: facendo i nomi dei protagonisti, individuandone le responsabilità e spiegando che, allora come oggi, la vittima fu solo una, il Paese. Un'operazione verità che potrebbe aprirgli anche gli occhi: scoprirebbe che chi gli ha dato le chiavi di Palazzo Chigi in realtà lo ha utilizzato per i suoi fini; che gli alleati di ieri sono i congiurati di oggi; e, magari potrebbe anche accorgersi di essere, per quello che dice e sogna di fare, addirittura nello schieramento sbagliato. Ci vorrebbe molto coraggio.

Un po' troppo, per Renzi.Augusto Minzolini

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