Ma la bellezza sul lavoro è un aiuto o un limite?

Una giovane lettrice: mi licenziano perché carina e intelligente Per gli economisti però l’avvenenza paga, anche negli stipendi

Ma la bellezza sul lavoro è un aiuto o un limite?

È vero che si è sempre dato per scontato che i belli avessero più successo sul lavoro, ma ieri è arrivata in redazione la mail di una ragazza di diciannove anni che sostiene proprio il contrario. Veronica Rivalta dice che nel suo «calvario di chi cerca lavoro» non deve fare i conti tanto con la crisi, quanto con - testualmente - «la mia bellezza, la mia intelligenza, la mia serietà, le mie capacità». Ma chi l’avrebbe mai detto che una ragazza bella, seria, intelligente e capace venisse licenziata proprio per questo? È possibile? Non sarà che Veronica se la canta e se la suona? O - per dire - magari è un pochino arrogante?
Ora il rapporto fra bellezza e lavoro è uno di quei temi impossibili, che coinvolgono solo le donne (sia come soggetto, sia come oggetto della discussione), perché pochi uomini si porrebbero la domanda se abbiano ottenuto il posto del capo perché sono bellocci o se non abbiano superato il colloquio perché sono brutti: nel primo caso, lo danno per scontato per la loro innata perfezione (mammà del resto gliel’ha sempre detto, fin da piccoli), nel secondo accuseranno il complotto dell’universo intero (mammà del resto gliel’ha sempre fatto capire, chi non li consideri perfetti è da cancellare). Detto questo, il tema comunque agita, innervosisce, crea schieramenti: per esempio, se chi scrive il pezzo sull’argomento è una donna, perché mai sarà stata scelta? Perché «sfigata» o «mediocre» (come scrive Veronica), visto che lavora? O perché bella, per lo stesso motivo? O perché donna e quindi, in qualche modo, dovrà avere una qualche familiarità con la questione, malgrado, per dire, non si sia mai posta la domanda ma abbia sempre dato per scontato, non ragionando, proprio come un maschio, che il lavoro fosse lavoro?
Insomma il caso della diciannovenne Veronica esiste, e ha anche una letteratura alle spalle, nelle ricerche di psicologia e di economia. Due studiosi israeliani per esempio sarebbero dalla sua parte: in «Are good looking people more employable?» («le persone di bell’aspetto trovano più facilmente lavoro?») sostengono che le donne, se carine, non debbano allegare foto al curriculum: hanno meno probabilità di essere richiamate, perché le selezionatrici sono soprattutto donne, quindi invidiose delle possibili rivali (infatti per gli uomini vale il contrario). E certo la gelosia può essere un fattore forte, molto extralavorativo, molto extra le capacità, la serietà, l’intelligenza e tutto il resto, anzi soprattutto per questo. Perché comunque la bella e oca è accettabile, si può subito tacciare di favoritismo e dimenticarsela così, senza danni all’autostima. D’altra parte molti studi da anni sostengono l’opposto. Uno dei più famosi e documentati è Beauty pays - «la bellezza paga» - di Daniel Hamermesh: l’economista dell’università del Texas dice che le brutte guadagnano il 12 per cento in meno delle belle, i brutti il 17 per cento in meno. E in totale, a fine carriera, i belli incassano 230mila dollari in più rispetto ai colleghi meno avvenenti.

Anzi Hamermesh auspica che lo stato protegga i brutti dalla discriminazione, come succede già a San Francisco. Tutelare dall’invidia per legge è da sempre impossibile, ma è anche vero che di solito i belli, seri e intelligenti una strada la trovano, di sicuro.

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