I l primo novembre di alcuni anni fa un prete bergamasco appassionato di ciclismo - un pretone di quelli di una volta, poca teoria e tanto cuore - portò alcuni amici a scalare la salita che porta al Ghisallo, una vetta fra i due rami del lago di Como, sulla quale si trova una cappella dove, accanto alla statua della Madonna, c'è la bicicletta di Fausto Coppi. Lì, quel prete celebrò la messa. Da sempre convinto che un'omelia deve essere breve («per non stufare la gente») la liquidò con poche ma efficacissime parole, che riporto a memoria: «Oggi, primo novembre, è la festa di tutti i santi. E chi sono i santi? Mia domà quei ch'in sü sul calendari, i santi sono tutti i nostri morti che sono andati in paradiso. E che cos'è il paradiso? Che cosa si fa in paradiso? La Scrittura dice contemplerò il tuo volto, Signore. Bello. Bellissimo contemplare il volto del Signore. Un giorno intero. Una settimana. Un mese... Ma poi, diciamo la verità, uno rischia di stufirsi. E allora io dico che quando morirò, se andrò in paradiso, gli chiederò: Signür, fammi fare un Giro d'Italia».
Nella semplicità di queste parole c'è tutta la concretezza cristiana, tutta la carnalità cristiana, c'è il desiderio umanissimo di rivivere, dopo la morte, tutto ciò che amiamo qui e ora: rivedere i nostri cari, un giro in bicicletta, mangiare e bere, insomma tutto ciò che ci ha reso bella, piacevole, la vita. E c'è, appunto, il pensiero del «dopo», c'è la mente rivolta «ai nostri morti», c'è la dimensione trascendente. Ma oggi, quante volte sentiamo ancora prediche così? La Chiesa parla ancora di vita eterna, di paradiso, di santi? Sì, certo, ci sono le beatificazioni, dove si certifica perfino un miracolo. Sì, ci sono documenti, qualche intervento del papa. Ma nella predicazione ordinaria? I preti parlano sempre più di temi sociali, ambientali, di solidarietà, quando va bene di educazione dei figli e di famiglia. Ma i Novissimi (morte giudizio inferno paradiso) sono scomparsi da un pezzo. Vittorio Messori, nelle prime pagine del suo nuovo libro Quando il cielo ci fa segno (Mondadori) riporta le parole preoccupate del cardinale Carlo Caffarra, ex arcivescovo di Bologna da poco scomparso: «È d'urgenza drammatica che la Chiesa ponga fine al suo silenzio circa il soprannaturale». Anche l'arcivescovo di Magonza Karl Lehmann, uno dei portabandiera del progressismo cattolico, nel suo testamento spirituale ha fatto autocritica: «Tutti noi, anche nella Chiesa, ci siamo immersi nel mondo e abbiamo sepolto e occultato l'Aldilà. Questo vale pure per me. Ne chiedo perdono a Dio e ai fratelli nella fede».
È curioso che un film a cartoni animati che parla del culto dei morti, Coco, abbia avuto un così grande successo, mentre nelle chiese il tema venga rimosso. Curioso e forse sintomatico del distacco che esiste fra la predicazione e il sentimento comune non solo dei fedeli, ma di tutti gli esseri umani. Perché tutti, credenti o no, pensiamo ai nostri morti, ne sentiamo la mancanza, avvertiamo con loro legame che non può passare. Qualche giorno fa ho intervistato uno dei figli di uno dei più famosi imprenditori italiani, scomparso giusto venticinque anni fa. Dopo che lui aveva ricordato, commosso, il loro ultimo incontro, gli ho chiesto se qualche volta parla con suo padre. «Gli parlo tutti i giorni», mi ha risposto, «gli dico quello che sto vivendo, gli chiedo consiglio, e lo sento vicino».
È un'esperienza che credo faccia ciascuno di noi, è una cosa che vedremo in questi giorni nei nostri cimiteri, osservando tanti uomini e tante donne mentre
sussurreranno, muovendo appena le labbra, senza emettere suono, chissà quali racconti, chissà quali suppliche a chi non c'è più, ma che speriamo ci sia ancora, in una qualche dimensione che possiamo solo, a stento, immaginare.
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