Cronache

"Il Corano non va toccato". Ecco il manuale per i poliziotti in carcere

Pubblicato il Sillabo. Un documento per "contrastare il radicalismo" in carcere e "conoscere l'islam". È indirizzato agli agenti carcerari

"Il Corano non va toccato". Ecco il manuale per i poliziotti in carcere

Immaginate di essere un poliziotto e di osservare in cella un uomo farsi crescere la barba, pregare Allah rivolto verso la Mecca, predicare i dettami del Corano agli altri detenuti. Come fate a capire se può diventare pericoloso oppure sta solo seguendo i rigidi dettami imposti dalla religione? Difficile, eppure di enorme importanza. In Italia infatti il rischio di radicalizzazione in carcere è alto: il caso di Anis Amri (il terrorista di Berlino passato dalle patrie galere) è solo un esempio. Per questo, per “conoscere l’islam” e “contrastare il radicalismo” jihadista, è nato un Sillabo sulle usanze musulmane destinato agli agenti che vivono a contatto con i carcerati.

Il documento, redatto dall’Università l’Orientale di Napoli, è ricco di informazioni sulla fede e sui costumi dei Paesi a maggioranza musulmana. L’obiettivo è quello di superare “la convinzione” che l’Islam sia una “religione essenzialmente violenta e socialmente pericolosa” (e forse per questo farà discutere), per “rimuovere una serie di pregiudizi” e permettere alle forze dell’ordine di accorgersi se un detenuto mostra eventuali atteggiamenti di radicalizzazione. Per scriverlo, il gruppo di ricerca - guidato dal prof. Michele Bernardini - ha realizzato incontri con il personale delle carceri per capire “i problemi, di maggiore o minore entità, che insorgono” dietro le sbarre: “Si va dall’assolvimento dei riti, al pudore; dall’uso del Corano, all’alimentazione; dal modo di pregare, a quello di gestione del denaro”. C’è per esempio un capitolo interamente dedicato al Corano, “parola increata di Dio”, e un box con le indicazioni su come maneggiare il libro sacro. “Deve essere trattato con molto rispetto”, può essere toccato solo da chi “ha compiuto le abluzioni formali” (difficilmente, dunque, un poliziotto) e deve essere “riposto in un luogo pulito e dignitoso, mai sul pavimento o in bagno”. "Per molti - si legge - un non musulmano non può toccare o maneggiare il testo coranico in arabo". L’agente inoltre dovrà ricordarsi che il Corano non può essere gettato come normale spazzatura, ma di solito viene avvolto in un panno e seppellito. Oppure abbandonato in un corso d’acqua.

Una versione del Sillabo (che potete trovare in allegato) è stata pubblicata sul sito del progetto europeo Train Training (di cui il ministero della Giustizia italiano è capofila) nato per valutare “il rischio specifico di radicalizzazione sia in prigione che in contesti di libertà vigilata”. Dovrebbe permettere agli agenti di capire meglio le abitudini dei detenuti musulmani, il dress code, i rituali di preghiera, la famiglia patriarcale, il ruolo della donna e quei dettami dalla religione che devono essere rispettati pure dietro le sbarre. Per distinguere radicalismo da pratica religiosa, il poliziotto deve sapere, per esempio, come e quando un musulmano prega. È nota ai più la pratica di utilizzare un tappetino, quella di togliersi le scarpe e di rivolgersi alla Mecca. Ma non molti sanno che “non devono essere presenti fattori” di disturbo, come “foto o immagini, voci e suoni, musica”. Cosa non semplice, in un carcere. E soprattutto “l’orante non deve essere interrotto se non per gravi motivi”.

Su Ramadan e cibi vietati, le indicazioni sono diverse. “Nel mese sacro - si legge - per un musulmano in contesto non islamico può essere utile ricevere un calendario con gli orari delle preghiere”. Meglio non mangiare o bere in presenza di chi sta praticando il digiuno. Per quanto riguarda il menu c’è da considerare che maiale, cane e asino sono considerati impuri e non possono essere mangiati (haram). Lo stesso dicasi per gli uccelli rapaci, i serpenti, gli insetti, i crostacei e gli invertebrati con conciglia. Le altri carni (se macellate secondo il rituale) sono halal, ma guai a ingoiare animali morti, il sangue o il vino. Se poi un cibo è stato contaminato, il detenuto musulmano potrebbe rifiutarlo: lo strutto, per esempio, "fa diventare proibita una vivanda anche se è stato solo usato per ungere la teglia in cui è stata cotta".

Nel Sillabo viene riservata particolare attenzione al salafismo, la corrente che mira “all’istituzione di un sistema islamico che richiami quello della fase iniziare dell’Islam”, cui appartengono i movimenti jihadisti come al Qaeda e Isis. I salafiti richiedono agli adepti abiti particolari: alle donne viene imposto di “coprire interamente il corpo, incluso il volto” (da tenere a mente, in caso di perquisizione), mentre i maschi non possono lasciare scoperta l’awara, cioè la parte del corpo tra ombelico e ginocchia, nemmeno di fronte ad altri uomini. C’è poi la questione barba lunga e baffi tagliati: come successo negli Stati Uniti (dove un detenuto si era opposto alla richiesta del direttore di accorciare la barba per motivi igienici), anche la peluria può diventare motivo di tensioni.

Tutti questi fattori (culturali, religiosi, rituali) vanno tenuti a mente per valutare l’eventuale adesione ad un gruppo radicale del detenuto. Per questo, il Sillabo dovrebbe “dare un contributo alle politiche europee per la formazione degli operatori penitenziari e degli agenti di polizia" nella "identificazione di comportamenti violenti di stampo jihadista”.

Un nuovo strumento per la lotta al terrorismo che minaccia l’Europa.

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