"La mia azienda è una realtà che dura da 93 anni, ora il futuro è molto incerto".

Massimo Pulin è il titolare dell'azienda Orthomedica, nonché il presidente di Confapi Sanità. La sua azienda in piedi dal 1927 dà da mangiare a 36 famiglie. Il grosso problema? "Abbiamo delocalizzato e non riusciamo nemmeno a produrre le mascherine!"

"La mia azienda è una realtà che dura da 93 anni, ora il futuro è molto incerto".

Il Coronavirus stravolge anche le realtà in piedi da quasi cent'anni. Anche quelle che hanno patito la Seconda Guerra Mondiale. “Ho iniziato a lavorare molto giovane, appassionato dall’arte di mio nonno e di mio padre che con le loro mani forgiavano tubi e aste per costruire dispositivi ortoprotesici che sono diventati poi la mia vita”. A parlare è Massimo Pulin, dirigente dell’azienda Orthomedica, specializzata nello sviluppo, nella distribuzione e nella vendita di prodotti ortopedici e presidente di Confapi Sanità.

Massimo ha 52 anni, sposato con Liliana, 2 figli, un’azienda nata nel 1927 dal nonno Alfredo, poi passata nelle mani del padre Giancarlo e ora nelle sue. Si sveglia tutte le mattine alle cinque e mezza, fa colazione, legge i giornali, poi prende esce e va in azienda. Alle sei e mezza è già in Orthomedica. Le gira tutte le sue sedi, ne ha otto; una in ogni provincia del Veneto e ora, prima dell’emergenza Coronavirus, ha anche aperto una sede in Libia.

Ora con l’emergenza Coronavirus si trova costretto a rimodulare la sua produzione, a riorganizzare tutto, ha attivato lo smart working per alcune persone ed è stato costretto per nove settimane a mettere in cassa integrazione a rotazione le persone.

Trentasei sono le famiglie a cui Massimo dà da mangiare. “La responsabilità che porti sulle spalle – dice - quando hai trentasei famiglie che vivono grazie al tuo impegno giornaliero non è così facile da capire e comprendere, soprattutto quando tutti fanno affidamento su di te per avere soluzioni a problematiche di ogni genere. Oggi con il blocco quasi totale della produzione e delle aperture dei negozi nei principali centri regionali ci troviamo a pensare a come rivedere il futuro della mia impresa e dei miei collaboratori e come imprenditore e come padre, vedo molte incertezze per il futuro di tutti noi”.

Di che tipo? “Dobbiamo far sì che la manifattura ritorni in Italia creando quel valore aggiunto che la globalizzazione ha spazzato via per la richiesta pressante di ridurre i costi. Le gare fatte all’insegna del massimo ribasso hanno spinto le imprese del settore biomedicale a delocalizzare. E ora non riusciamo nemmeno a produrre le mascherine che servono. La mancata riorganizzazione del Sistema Sanitario Nazionale e Regionale ha portato, in questa fase di grave emergenza, alla sofferenza delle aziende del settore. E questo ci ha condotto alla situazione attuale, per cui in Italia scarseggia persino l’amuchina e le mascherine siamo costretti a importarle dal Sudafrica, dal Sud America, dall’ India e dalla Cina”.

Lei non potrebbe produrne? “No, per fare mascherine ci vogliono macchine da taglio, stampi, ci vogliono mesi per far partire questo settore. Dovremmo poi trovare i materiali per farle e poi ottenere la certificazione per commercializzarle. Anche se l’emergenza spingesse ad allentare i lacciuoli della burocrazia per quanto riguarda la certificazione, comunque produrle non sarebbe semplice né immediato”.

Che fare quindi? “Le soluzioni si troveranno, ne sono sicuro, l’italiano ha una marcia in più per risollevarsi nel momento che più sembra buio, però abbiamo bisogno che lo Stato questa volta sia presente e, che l’Europa miope ed egoista sia solidale e non distante, altrimenti questa Europa non serve più, e forse questa è la volta buona per un cambiamento radicale in tutti i punti di vista”.

In qualità di presidente delle imprese del settore privato cosa chiede oggi al Governo? «Per prima cosa che le aziende che erogano i cosiddetti “servizi minori”, ma non di minore importanza per la cittadinanza (come per esempio la riabilitazione, la chirurgia minore, la fornitura di beni e servizi, la fornitura di protesi e ausili per disabili) dovrebbero poter usufruire di un percorso facilitato da nomenclatori nazionali e regionali rinnovati e rivisti, al fine di garantire che le tariffe per le singole prestazione e forniture siano certe, non discutibili e non interpretabili. Ma è tutto il rapporto tra pubblico e privato che va ridefinito”.

Cioè? “Concentrando le risorse pubbliche nella cura delle patologie complesse e lasciando alle aziende private accreditate la cura delle patologie minori. Così facendo si ridurrebbero i costi a carico del Sistema Sanitario Nazionale, in quanto le aziende accreditate avrebbero costi certi e sicuramente inferiori. Per altro verso si realizzerebbe in maniera coerente e ordinata una nuova forma di integrazione fra pubblico e privato. In molti paesi europei questo avviene già da molto tempo.

Secondo lei è veramente possibile? “Devono essere premiate le professionalità. L’unico metro di selezione deve essere quello delle capacità e competenze. Diversamente, ogni emergenza sarà un disastro.

La crisi, quindi, dovrà condurre tutti a riflettere sull’opportunità che da essa possa nascere un reale cambiamento del nostro servizio sanitario, scongiurando lo scoramento che facilmente sorge di fronte al dramma attuale”.

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