Per l’ennesima volta emerge che il responsabile di un attentato in Europa è transitato in Italia. Questa volta si tratta di Youssef Zaghba, italo-marocchino che nel marzo 2016 si recava a Bologna, dove vive sua madre e da dove provava a imbarcarsi su un volo diretto in Turchia per andare a combattere in Siria.
Zaghba non è il primo jihadista che viene ricollegato al nostro Paese (magari anche soltanto per semplice transito), basti pensare a casi come quello di Abdeslam Salah, Anis Amri, Mohamed Lahaouiej Bouhlel, Nourredine Chouchane, Khalid El Bakraoui, il falsario Mohammed Lahlaoui, Chokri Chafroud, giusto per citarne alcuni.
Del resto se nel 2014 l’ex ministro degli Interni, Angelino Alfano, indicava 48 casi di jihadisti in qualche modo ricollegabili all’Italia, è chiaro che tre anni dopo il numero non può che essere aumentato.
Se poi andiamo ad esaminare tutte le casistiche legate all’Italia per quanto riguarda l’indottrinamento e il reclutamento per Daesh e per i gruppi qaedisti, come i casi di Oussama Khachia, Anass el Abboubi e Giuliano Delnevo, tenendo in considerazione anche le reti, come quella di Bilal Bosnic e Ahjan Veapi nel Triveneto o quella di Maria Giulia Sergio e Aldo Kobuzi che toccavano Lombardia, Toscana e Albania, allora il panorama diventa ben più ampio.
Preoccupa inoltre la rete tunisina presente sul territorio fin dagli anni ’90. Una rete che ha mutato nome e ha visto transitare diversi personaggi tra Sicilia e nord Italia. Se negli anni ’90 a Bologna era presente il gruppo dei “takfiri” tunisini ideologicamente legati ad Abu Qatada, successivamente è emerso tutto il contesto di Ansar al-Sharia con Sami Ben Khemais Essid e Mehdi Kammoun (che vivevano tra Milano e Gallarate); la rete tunisina aveva rapporti strettissimi con il gruppo belga che fornì i passaporti falsi ai due killer (anche loro tunisini) del comandante anti-talebano Ahmed Shah Massoud, ucciso in Afghanistan il 9 settembre 2001. Il capo-cellula in Belgio era Tarek Maaroufi, a sua volta indagato e ricercato in Italia.
La rete tunisina potrebbe essere ancora presente in Italia, come mostrano casi come quello di Anis Amri ma anche quello di Saber Hmidi, arrestato a Roma lo scorso gennaio con l’accusa di indottrinamento in carcere. C’è poi Ismail Tommaso Hosni, l’italo-tunisino che ha colpito in Stazione Centrale a Milano, un caso che attende numerosi chiarimenti.
Questi sono solo alcuni dei casi legati all’Italia, ma ve ne sono molti altri su cui è necessario sorvolare per motivi di spazio.
A questo punto è lecito porsi alcune domande come ad esempio, l’Italia è base logistica per i jihadisti? (sia quelli che colpiscono l’Europa che quelli in partenza per le zone di guerra)? Oppure è soltanto un luogo di transito? Quali sono le zone maggiormente interessate dal fenomeno jihadista e le città maggiormente coinvolte, direttamente o indirettamente, in atti di terrorismo? E’ corretto fare una correlazione tra terrorismo e regioni più popolose d’Italia?
In primis è necessario fornire una definizione di cosa si intende con il termine “base”; se con questo intendiamo un sito dove i jihadisti stazionano per dedicarsi alla pianificazione di attentati, per l’indottrinamento e il reclutamento, allora sì, l’Italia può essere considerata tale, anche se può risultare improprio fare riferimento al termine “Italia” visto che ciascuna zona del Paese viene utilizzata in maniera differente dal jihadismo.
Ciò che alcuni fanno però fatica a comprendere è che oggi ragionare con i concetti di “base” e “luogo di transito” può essere fuorviante perché il terrorismo è cambiato, è più fluido e mutevole e dunque un luogo di transito può rapidamente trasformarsi o essere contemporaneamente anche una base per poi scomparire e ricomparire altrove.
Se Puglia e Sicilia sono considerati prevalentemente luoghi di transito vi sono stati anche casi di radicalizzazione in loco e persino di piccoli gruppi radicali sgominati.
La rete di Bilal Bosnic è forse uno dei casi più significativi che mostra come certe zone erano diventate contemporaneamente “basi” per l’indottrinamento e il reclutamento ma anche luoghi di transito.
Se poi vogliamo anche dare uno sguardo indietro, non dimentichiamo che l’Italia già in passato, negli anni ’90, fu base di collegamento per i jihadisti che andavano a combattere in Bosnia contro i serbi.
A chi sostiene che l’Italia non può essere “base” perché vi sono molte espulsioni bisogna suggerire di fare attenzione, perché la situazione può anche essere letta al contrario e cioè che vi sono tante espulsioni perché in Italia vi è forte presenza di elementi radicali che si attivano, utilizzando il Paese non soltanto come luogo di transito ma anche come “base” per l’indottrinamento e il reclutamento. Insomma, le espulsioni non sono certo un indicatore per poter sostenere un’assenza di “basi”.
Discutibile anche un’eventuale lettura del fenomeno jihadista in relazione alle regioni maggiormente colpite da espulsioni e arresti. Una lettura quantitativa del fenomeno può senza dubbio essere utile, ma non è certo un aspetto primario per misurare il livello di pericolosità o intensità del fenomeno. Un esempio, la zona di Perugia, ultimamente interessata da diversi casi di radicalismo. Può valer la pena chiedersi il perché.
Il panorama radicale in Italia negli ultimi anni è peggiorato: il numero di radicalizzati (espulsi, arrestati, partiti) è incrementato; continuano ad arrivare segnalazioni sul sorgere di centri islamici irregolari e non esattamente moderati; iniziamo a vedere casi di seconde generazioni radicalizzate ed anche delle prime zone con segni distintivi delle banlieue francesi, come a Milano e Torino, dove elementi radicali hanno anche trovato un idoneo nascondiglio.
Il concetto più importante però è un altro: il terrorismo è cambiato, oggi è più fluido, mutevole,
ibrido e dunque necessità di nuove analisi valutative che superino i vecchi standard interpretativi, altrimenti si rischia di utilizzare gli strumenti sbagliati per leggere il fenomeno, con tutte le relative conseguenze.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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