Cronache

L'ultrà di Fermo dal carcere: "Non sono razzista in cella con dei neri, siamo amici"

Sguardo pentito e tristezza nel volte. Così Amedeo Mancini si racconta al Resto del Carlo dopo la discussa lite di Fermo che ha portato alla morte il nigeriano Emmanuel Chidi

L'ultrà di Fermo dal carcere: "Non sono razzista in cella con dei neri, siamo amici"

"Sono distrutto e soprattutto pentito di ciò che è successo" ammette Amedeo Mancini con sguardo rassegnato. Lui è l'ultrà della Fermana calcio protagonista della controversa lite di Fermo, in cui è morto il profugo di origine nigeriane Emmanuel Chidi. Il pugno sferrato dal tifoso, come è stato verificato, non è la causa della morte del migrante, dovuta piuttosto a una ferita alla testa susseguente alla caduta.

Mancini si racconta a Il Resto del Carlino, attorno a lui la direttrice del carcere di massima sicurezza di Ascoli, Lucia di Feliciantonio, e altri quattro detenuti con cui condivide la cella speciale, tenuti divisi dagli altri detenuti. In quello stesso istituto penitenziario soggiornarono anche Totò Riina al 41 bis e Alì Agca, l’attentatore del Papa.

Per giorni Mancini è stato visto come la bestia italiana che ha ucciso un uomo perchè nigeriano. Un aggressione a sfondo razzista l'hanno definita in molti. Solo i testimoni e il successivo cambio di versione della vedova di Emmanuel hanno scacciato l'onda razziale dalla figura dell'ultrà. "Sono stato stritolato da un vicenda più grande di me – dice Mancini –, forse ho un carattere irruento, questo sì". Della spavalderia che traspariva nelle fotografie pubblicate dai giornali non rimane più nulla. "Sono distrutto e soprattutto pentito di ciò che è successo. La vedova di Emmanuel? Sono consapevole di aver tolto la vita al marito e averla rovinata a lei. Ma anche la mia vita è rovinata. Sono addolorato" racconta con sguardo smarrito.

La Chinyery, vedona del profugo, ha cambiato versione dei fatti dopo il polverone sollevato da quella lite a Fermo e la successiva morte di Emmanuel. "Fu Emmanuel a colpire per primo Mancini, ma poco prima lui ci aveva offesi e insultati" ha spiegato solo qualche giorno dalla morte del marito. Ma Mancini comunque non si dà pace: "A lei chiedo perdono e quello che posso fare è mettere a disposizione tutti i mie beni per andarle incontro. Lo avevo già fatto sapere attraverso il mio avvocato e ora lo voglio ribadire con forza".

Parole di un uomo pentito. Nei dialoghi però non esce mai il nome di don Vinicio Albanesi, sacerdote della comunità di Capodarco, che ospitava Emmanuel e Chinyery. Il primo ad aver avanzato le accuse di aggressione razzista. Quegli attacchi Mancini non li dimentica. L'etichetta di razzista non la vuole incollata al suo nome. "Guardi qui in cella, con me ci sono due ragazzi di colore con cui ho ottimi rapporti. Nessuno screzio, giochiamo a pallone insieme nel campo del carcere per passare il tempo. E poi avrà visto che i giornali hanno pubblicato la mia foto con un giocatore di colore della Fermana. Lo ripeto, non sono razzista e convengo che al mondo nel bene e nel male siamo tutti fratelli" dice al giornalista.

"Faccio di tutto per rimanere sereno, anche se è difficile" ammette Mancini. Il Tribunale del riesame prenderà in considerazione la richiesta di scarcerazione presentata dal suo legale. Un pensiero fisso che non riesce a togliersi dalla testa: "Sono in attesa di giudizio e lo so.

Spero solo di venire giudicato per ciò che è successo veramente e per come sono andate le cose durante quella maledetta giornata, non per tutto ciò che è stato detto e scritto".

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