Il paragone corre facile: Dallas come Fermo, l'America nera che si ribella al razzismo, la provincia italiana che si scopre violenta e incattivita. Ma Francesco Alberoni, sociologo dal curriculum sterminato, mette un freno alle suggestioni: «Alt, non confondiamo i Paesi».
Perché, professore?
«Gli Stati Uniti sono nati sul razzismo. I neri sono arrivati come schiavi e non si sono liberati da soli. C'è stata la Guerra di secessione».
Questo che cosa significa?
«L'emancipazione è una conquista lenta, dolorosa, contraddittoria. Due passi avanti e uno indietro. Posso raccontarle un episodio personale».
Prego.
«Andai negli Usa per la prima volta nel 1960. Era inimmaginabile che un nero si sedesse sull'autobus vicino a una donna bianca. Non vorrei essere pessimista, ma l'America profonda, quella che non ha cittadinanza sul New York Times, secondo me disprezza ancora profondamente il nero. Lo ritiene inferiore, incapace di lavorare, inaffidabile. Da questo punto di vista la loro è una storia di sangue e il sangue, purtroppo, scorre ancora».
A Fermo abbiamo copiato il peggio di quel modello?
«È il razzismo di una persona, non di un popolo».
L'Italia non ha una tradizione in questo senso?
«Ma no, abbiamo 2500 anni di imperi e di papi. Figurarsi se c'era spazio per rigurgiti di questo tipo. All'imperatore, o al Papa, non interessava certo il colore della pelle. Però c'è un'eccezione».
Quale?
«Gli zingari. Sono sempre stati considerati una razza inferiore: brutti, sporchi, cattivi. E pericolosi, perché nell'immaginario collettivo portavano via i bambini».
Con i neri questo non è mai accaduto?
«Ma no, non c'erano i numeri. Non c'era lo scontro cruento che abbiamo visto negli Stati Uniti con tutto quello che è successo: il Ku Klux Klan, le Pantere nere, Martin Luther King. Da noi si cantava Faccetta nera, bell'abissina. Nessuno può pensare che queste siano parole xenofobe».
Qualcosa sta cambiando?
«Beh, quando sei invaso per anni da migliaia e migliaia di vu' cumprà viene su dalle viscere un moto di fastidio, di intolleranza, di distanza che può portare al razzismo».
Insomma, non siamo razzisti, ma potremmo diventarlo?
«In modo spicciolo, non codificato, senza costruire una teologia della superiorità bianca, come hanno fatto certe comunità protestanti. Su questo versante gli Usa erano come il Sud Africa, l'Italia ha un altro respiro, un altro passo, un'altra storia».
Ma il rapporto con l'Islam non è sempre stato difficile?
«Certo, ma quello è l'avversario, il nemico che arriva alle porte di Vienna, quello che taglia le teste ai martiri di Otranto e popola gli incubi della gente. Quella è guerra».
Il terrorismo riprende in qualche modo quell'antico conflitto?
«Senz'altro: il pirata di ieri è il terrorista di oggi. Forte, a tratti invincibile, pericolosissimo. Il confronto con l'islam, e ora con l'islamismo, torna ad essere uno scontro.
La partita con gli immigrati ha un altro
copione?«Stiamo scivolando verso l'intolleranza, ma l'America resta lontana. E io credo che l'episodio di Fermo, dove fra parentesi è morto un cristiano in fuga, suonerà come un campanello d'allarme per gli italiani».
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