Cronache

Il grande business dei profughi

Tra onlus senza scrupoli e professionisti a caccia di soldi, lo Stato butta via 61 milioni. E i tribunali sono intasati da migliaia di cause

Il grande business dei profughi

A. ha abbandonato il Gambia perché suo padre voleva a tutti i costi fargli fare incontri di boxe a mani nude. M. è scappato dal Mali perché tutte le notti gli appariva in sogno un diavolo che voleva fargli mangiare un piatto di riso: in Italia si sentirebbe più sicuro, perché - spiega - il diavolo non sa nuotare e non può raggiungerlo. B. ha lasciato il Senegal perché era ricercato per avere disertato la leva per non stare lontano dalla nonna. Come migliaia di altri disperati, sono arrivati in Italia, hanno chiesto asilo, se lo sono visto respingere, perché era evidente che non c'era nessuno dei motivi umanitari, religiosi o politici che giustificano l'asilo. Ma non se ne sono andati. Hanno fatto ricorso. Il loro ricorso è andato a intasare le cancellerie dei tribunali. E soprattutto a ingrassare il business del «gratuito patrocinio», il capitolo di spesa che deve servire a dare assistenza legale ai cittadini indigenti, e che ormai viene assorbito in larga parte per finanziare i ricorsi dei profughi, veri o finti che siano, che accedono ai fondi pubblici senza sottostare a nessuno dei controlli che toccano agli italiani.

IL DRAMMA E GLI IMBROGLI

È un tema delicato, quello del grande affare dei ricorsi per ottenere asilo, e lo è per più di una ragione. In primis, perché lo sfondo è quello di drammi epocali e reali, di sventurati in fuga da guerre e persecuzioni reali tra cui si mimetizzano migliaia di furbacchioni. Più prosaicamente, perché intorno al business dei ricorsi si muove un mondo di onlus e di cooperative che pensano anche agli affari loro: costola di quell'universo venuto alla luce, prima ancora dell'inchiesta su Mafia Capitale, già in una serie di inchieste giornalistiche, come quella dell'Espresso nel 2012. E, ancora più tristemente, perché i fondi del gratuito patrocinio costituiscono la principale fonte di sostentamento di un numero consistente di avvocati che la crisi ha messo in difficoltà: «È diventata la loro cassa integrazione», sintetizza un magistrato di lunga esperienza. Sono questi avvocati, spesso emanazione delle onlus specializzate nell'accoglienza, a monopolizzare - o quasi - il business dei ricorsi. E a incassare per ogni ricorso, spesso stilato con la raffinata tecnica del copia-e-incolla, tra gli ottocento e i mille euro. Da moltiplicarsi per i tre gradi di giudizio. Anche se politicamente un po' scorretto, il tema del business dei ricorsi è noto da tempo agli addetti ai lavori. Tant'è vero che qualcuno ha iniziato a sollevarlo formalmente. L'Ordine degli avvocati di Roma ha iniziato a respingere una parte consistente delle richieste di gratuito patrocinio, perché prive dei requisiti fondamentali.

Ma intanto la pratica va avanti, la cancelleria accetta il deposito del ricorso anche senza le marche da bollo, poi il giudice quasi sempre concede il patrocinio a spese dello Stato. Migliaia e migliaia di cause. Eppure spesso a spartirsi la torta è un nugolo ristretto di avvocati. A Roma gli iscritti all'albo sono venticinquemila: «Ma gli asilanti che ottengono il gratuito patrocinio - raccontano fonti interne al palazzo di giustizia - hanno sempre gli stessi avvocati: dieci, massimo venti. Sono quelli legati alle onlus presenti nei centri di prima accoglienza: l'Arci, la Caritas, il Centro Astalli dei gesuiti. La mattina quando si aprono le porte dei centri, gli avvocati sono già dentro, chissà come. Gli altri avvocati, quelli normali, entrano, e trovano i clienti già tutti accaparrati». L'intervento dell'avvocato è prezioso, perché consente all'immigrato di rimediare per tempo agli sbagli compiuti quando, al momento del primo impatto con le forze di polizia, ha fornito la prima versione della propria storia, riempiendo il cosiddetto «modello c3», primo impatto con la burocrazia italica. Nei ricorsi, la versione dei fatti spesso viene aggiustata e corretta.

UN MARE DI DOMANDE

I numeri del contenzioso sono impressionanti. Nei dodici mesi dall'agosto 2013 al luglio 2014, le commissioni presso le prefetture hanno esaminato oltre 35mila richieste di asilo. Un po' più di 9mila sono state respinte, e gli interessati hanno fatto ricorso. Ma il problema è che a fare ricorso sono nella quasi totalità anche gli immigrati che si sono visti concedere protezioni meno generose dell'asilo, che dà diritto a cinque anni di permanenza nel territorio italiano, ed è stata concessa solo a 3.784 persone. Non si accontentano e fanno ricorso quelli che si sono visti concedere la «sussidiaria», che garantisce tre anni di soggiorno. E pure quelli della «umanitaria», che garantisce un solo anno. In tutto, oltre 30mila cause in Italia. Praticamente, tutte a spese dello Stato. La prima conseguenza è l'esplosione dei costi che la giustizia italiana deve sostenere per il «gratuito patrocinio». Le statistiche del ministero di via Arenula segnalano negli ultimi cinque anni un'escalation inarrestabile: dai 30 milioni spesi nel 2008 si è arrivati ai 61 milioni del 2013. I dati del 2014 ancora non ci sono, perché la massa è tale che molti tribunali ancora non sono riusciti a fornirli al ministero, ma la crescita continua. Sono dati complessivi, che non distinguono il patrocinio concesso a italiani e stranieri. Ma chi sta sul campo ha un polso chiaro della situazione: «I fondi per il gratuito patrocinio sono assorbiti quasi per intero dai richiedenti asilo», raccontano in tribunale a Milano. Il contenzioso è destinato ad aumentare, perché le commissioni territoriali hanno cominciato a stringere le maglie. Nel corso dello scorso mese di gennaio, tanto per dare un'idea, sono state presentate 5.407 domande di asilo in Italia.

Ne sono state esaminate meno della metà, 2.503. E di queste ne sono state respinte ben 1.190, quasi la metà. Il 23% si è visto concedere la «umanitaria», il 20% la «sussidiaria». In pratica, solo il 6 per cento dei richiedenti ha ottenuto l'agognato asilo. Tutti gli altri faranno ricorso, perché non costa nulla e soprattutto perché rivolgersi alla magistratura consente di restare in Italia. Dal primo ricorso al tribunale, fino all'esito dell'ultimo in Cassazione, il cittadino straniero ha diritto al permesso di soggiorno per motivi di giustizia. Non esistono dati statistici sulla durata di questi processi, ma è facile immaginare che non si arrivi molto lontano dai cinque anni.

LE PROVE NON SERVONO

Nella sostanza, si ottiene quasi lo stesso risultato che si sarebbe ottenuto se le commissioni avessero concesso subito asilo. «Anche perché - spiegano in tribunale a Roma - dopo avere impugnato un provvedimento della commissione, si può chiedere alla commissione di esprimersi nuovamente. La commissione ribadisce il suo parere e si impugna anche quello, sempre a spese dello Stato. È come se si facesse causa quattro volte per riparare sempre la stessa portiera». Nel frattempo, il richiedente resta in Italia. Insomma, tanto varrebbe concedere l'asilo a tutti, il risultato sarebbe lo stesso ma si risparmierebbero una montagna di soldi e un sacco di lavoro. La normativa italiana, d'altronde, è indubbiamente garantista. In primo luogo perché a differenza di buona parte degli altri paesi europei assegna la competenza sui ricorsi alla giustizia ordinaria, e non a quella amministrativa. In secondo, perché - sulla base di precisi orientamenti della Cassazione - il ricorso viene valutato privilegiando il punto di vista dello straniero. «Potremmo dire - spiega un giudice milanese che da anni si occupa di questi ricorsi - che non è il richiedente a dover dimostrare la verità delle sue motivazioni, quanto lo Stato a doverne mettere eventualmente in dubbio l'autenticità». Un'inversione dell'onere della prova, dovuta indubbiamente a considerazioni umanitarie, che porta - anche se non esistono statistiche precise su questo dato - all'accoglimento di una larga parte dei ricorsi anche se non sono emersi fatti nuovi. La stessa documentazione che aveva portato le commissioni territoriali (di cui fa parte per legge anche un rappresentate del commissariato Onu per i rifugiati di cui era portavoce Laura Boldrini) a negare lo status, viene spesso considerata sufficiente dal giudice per la decisione opposta. In quelle carte, racconta chi per lavoro ci vive in mezzo, passa di tutto. Veri drammi individuali o collettivi, storie di fame e miseria, mode passeggere come quella dei senegalesi che proclamano in massa di essere sfuggiti all'arruolamento tra i ribelli del Kasamas.

E persino chi candidamente chiede asilo in Italia visto che in patria lo ricercano per avere piazzato una bomba.

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