Era solo questione di tempo. Perché difficilmente il cosiddetto «asse sovranista» tra Lega e Fratelli d'Italia avrebbe potuto superare la campagna elettorale senza che esplodesse quella che da sempre è la principale contraddizione dell'alleanza tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Nonostante il segretario della Lega cerchi ormai da qualche anno di allargare il bacino elettorale oltre la linea del Po, il core business del Carroccio resta infatti fortemente ancorato al Nord e alle aspirazioni autonomiste di alcune sue regioni, Lombardia e Veneto prime fra tutte. A differenza di Fratelli d'Italia, che è un partito con numeri decisamente più piccoli ma a respiro nazionale e che della parola «patria» sta facendo il suo principale slogan (non a caso il titolo dell'ultima edizione di Atreju è stato: «È tempo di patrioti»).
Insomma, due visioni lontane anni luce l'una dall'altra. Eppure, complice anche la comune speranza di riuscire a mettere in discussione la leadership di Silvio Berlusconi, Salvini e Meloni hanno preferito rimuovere il problema e nell'ultimo anno sono andati a braccetto, non solo politicamente ma anche fisicamente in diverse piazze italiane. D'altra parte, i temi unificanti ci sono, dall'immigrazione alle ricette economiche.
Di traverso, però, ci si è messo il referendum in Catalogna, che ha portato alla luce una frizione rimasta finora sottotraccia. Così, mentre in Spagna si vive un clima da guerra civile, in Italia si è aperta una piccola gazzarra che ha poco di politico e molto di propagandistico. Il paragone tra il referendum catalano e quello che si terrà in Lombardia e Veneto il 22 ottobre è infatti a dir poco improprio, non solo perché il primo era legalmente illegittimo ma anche perché quelle che si terranno in Italia sono votazioni che hanno un valore esclusivamente consultivo, dunque politico. Su una questione, la richiesta d'attribuzione di «ulteriori forme di autonomia» in base all'articolo 116 della Costituzione, che in Lombardia e ancor più in Veneto è sentitissima, tanto che nelle due regioni buona parte del Pd e pure Fratelli d'Italia è schierata per il «sì».
Eppure ancora ieri Salvini e Meloni hanno continuato a darsele di santa a ragione, con la leader di Fdi che ha ipotizzato una reazione eccessiva dovuta a «questioni interne alla Lega». Un discreto ma deciso affondo nei confronti di Salvini, visto che è noto a tutti come ormai da tempo ci sia una certa tensione tra lui e Roberto Maroni. Il governatore della Lombardia, infatti, è da sempre contrario alla trasformazione del Carroccio in partito a vocazione nazionale, tanto che qualche mese fa si è messo di traverso quando il segretario ha provato a togliere dal nome del partito il riferimento territoriale trasformando la Lega Nord in semplice Lega. In questo senso, dunque, il referendum del 22 ottobre rappresenta anche un termometro degli equilibri dentro il Carroccio, perché è chiaro che un'alta affluenza sarebbe letta come una vittoria della linea autonomista.
Il dualismo tra Salvini e Meloni, dunque, non sembra destinato ad esaurirsi a breve. Le elezioni politiche, d'altra parte, si avvicinano e la leadership di Berlusconi nel centrodestra appare più salda di prima. Così, la leader di Fratelli d'Italia sembra decisa a rimarcare le distanze dal Carroccio, ben cosciente che un pezzo importante del suo partito, soprattutto al Centro e al Sud, non ha visto di buon grado l'idillio con la Lega dell'ultimo anno. Uno che in privato lo teorizza da tempo puntando il dito contro lo statuto del Carroccio che «ancora oggi parla di secessione» è Fabio Rampelli, uno dei fondatori di Fdi nonché voce ascoltatissima dalla Meloni.
L'obiettivo, insomma, è cercare di capitalizzare politicamente nelle regioni dove la Lega non c'è (e Noi con Salvini non sfonda), zone dove le istanze autonomiste di Lombardia e Veneto non sono affatto viste di buon grado. Con il rischio che questo braccio di ferro tra alleati abbia ripercussioni negative sui referendum del 22 ottobre, perché difficilmente lo scontro aiuterà le ragioni dell'affluenza.
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