Nel millennio desertificato della trasparenza obbligatoria, c'è un angolo d'ombra quieto come una radura, in cui perfino le personalità pubbliche possono trovare sollievo. Intorno è tutta una giungla di tweet selvaggi e privacy fatta a pezzi sulla piazza. Relazioni sbandierate, affetti sbattuti sui social, dichiarazioni dei redditi affisse in Rete. Ma quella zona grigia è una riserva di pudore e intimità, un luogo tabù che resiste alle minacce e allo spirito dei tempi che non prevede più il non detto. Lì, acquattata nell'oscurità che la protegge, l'uomo custodisce «la sua più grande imperfezione»: la malattia. E in quel recinto ognuno è un'isola, con le sue regole e la sua sensibilità, tutte lecite e da rispettare.
Lo straziante e improvviso finale dell'esistenza di Sergio Marchionne non è eccezionale: la vita è l'unica malattia incurabile, per chiunque e ovunque. L'eccezionalità - e la difficoltà ad accettare quel finale - sta piuttosto nel fatto che siamo così abituati a conoscere ogni dettaglio di potenti e celebrità che l'idea di non sapere la verità sulla loro salute fa crollare il mito malsano dell'onniscienza invasiva. In un istante ci rendiamo conto che quando si muore si muore soli, ma quando ci si ammala ci si può ammalare anche in segreto. Banale e sacrosanto, certo. Ma dannatamente anacronistico in un mondo in cui - dalla bandana coraggiosa di Emma Bonino al sorriso di Nadia Toffa - la malattia ha finalmente smesso di essere una vergogna per diventare anche battaglia civile. Eppure, c'è ancora qualcuno che cerca quell'ombra.
Per gran parte della storia occidentale, condottieri e potenti hanno occultato ogni male, dai mini-ictus di Giulio Cesare nella battaglia di Tapso all'emofilia genetica dello zar Nicola II, «frutto degenerato di una famiglia degenere» per dirla con Trotsky. Esiste un libro (In sickness and in power di David Owen) che lo spiega in maniera esemplare. Malattia significa debolezza, debolezza significa vulnerabilità. E un governante vulnerabile è destinato a governare per poco. I tempi delle 44 coltellate e delle congiure di palazzo sono lontani, ma la stessa ossessione per l'immagine invincibile del potere è rimasta per tutto il Novecento. Con derive più o meno farsesche.
Per il Granma, il giornale del regime cubano, l'ultimo Fidel Castro è sempre stato in splendida forma nonostante comparisse solo ogni sei mesi, e per di più avvolto in tute da ospizio. Hugo Chávez, sformato dalle cure, si mostrava brindando ad aranciata alla faccia della propaganda Usa. Tutti eredi della più grande scuola di occultamento maldestro delle malattie, quell'Unione Sovietica che per vent'anni fu retta da morti viventi, ma decorati con l'Ordine di Lenin. Leonid Breznev aveva subito infarti plurimi, era dipendente dagli antidolorifici, immobilizzato dalla borsite e aveva una bocca talmente distrutta che i suoi discorsi in radio erano incomprensibili, ma resse il Pcus fino all'82. Yuri Andropov e Konstantin Cernenko, gerontocrati di un'ex superpotenza ancor più malmessa, sparivano intere settimane per imprecisati «raffreddori». Stessa cosa in Cina, dove il Parkinson di Deng Xiaoping e le malattie veneree di Mao Zedong diventarono segreto di Stato, tant'è che la biografia del Grande Timoniere è ancora vietata.
Il dolore e l'infermità sono state macchie da epurare dai curricula anche in Occidente. Se per Joseph Goebbels, che fece passare la sua osteomielite per una ferita di guerra, era obbligatorio in un regime nazista che odiava le deformità, negli Stati Uniti l'incompatibilità fra malattia e immagine pubblica è più sorprendente. Fu così per Franklin Delano Roosevelt, che dopo la poliomielite fu costretto sulla sedia a rotelle ma la evitò sempre in pubblico, tanto da costringere Stalin e Churchill a farsi fotografare seduti come lui a Yalta; fu così anche per John Fitzgerald Kennedy, icona sorridente dell'America Wasp dilaniato in segreto da atroci sofferenze alla schiena. È il dogma dell'immortalità dei Faraoni che ha attraversato i secoli e si è trasformato in una nuova legge: chi guida un popolo non può zoppicare.
Negli ultimi anni questa impostazione è cambiata. Il lutto, l'avvicinamento al rito del «passaggio» sono parte fondante dell'antropologia culturale e ogni epoca ha il suo approccio alla morte. La contemporaneità ha insegnato che i passi più stentati e complicati della vita, quelli segnati da malattie anche gravi o letali, sono diventati qualcosa da non nascondere. Si soffre, ma si lotta e si incitano gli altri a non mollare. Forse non per caso, sono state soprattutto le star dello spettacolo e dello sport a indicare la strada. Lady Gaga, Angelina Jolie e ancor prima il cestista Magic Johnson, che con il suo outing sull'Aids ha cambiato la storia dello sport proprio mentre Freddie Mercury negava la sua sieropositività ad oltranza, cedendo alla verità solo 24 ore prima della morte. Ammettere la vulnerabilità ha avvicinato le stelle alla terra e ha creato un paradigma: il «famoso» quando sta male lo comunica ai fan. Sicché ci siamo abituati a vivere al capezzale di ogni celebrità, con cartelle cliniche giornaliere e bollettini medici puntuali, ma ci siamo dimenticati che condividere la malattia dev'essere una scelta, non un obbligo morale.
I Vip non sono tutti uguali. Attori, cantanti e calciatori sono dei modelli, ma al contrario dei leader politici non hanno responsabilità dirette. Un tumore a David Bowie è un dramma, ma ad un capo di Stato può innescare crisi internazionali. Ecco perché - soprattutto in America - la salute dei politici è diventata un'arma e sia Hillary Clinton sia Donald Trump hanno dovuto mostrare certificati medici di sana e robusta costituzione durante l'ultima campagna elettorale. Ed ecco perché la Cia studia le immagini dei leader ammalati dagli anni '60 e stende report sulle loro condizioni: con la neoplasia del francese Georges Pompidou ci azzeccò, con Kim Jong-un ci sta lavorando, tra una diagnosi di diabete e una di gotta.
Per i manager è la stessa cosa. La loro salute non è affar privato, ma interessa migliaia di azionisti. Steve Jobs, che della sua lotta contro il cancro parlò pubblicamente mentre era ancora al timone di un colosso come Apple, fregandosene delle ripercussioni sui mercati, è stato un rivoluzionario. Ma la scelta opposta di Marchionne di mantenere un riserbo assoluto è altrettanto coraggiosa.
Perché oltre ad essere umanamente legittima, è anche una difesa estrema dell'azienda e della sua comunità.Si dice che il corpo è un tempio, ma è anche un campo di battaglia. Ognuno decide come combatterla e come arrendersi. Se nel clamore della piazza o in quella ombreggiata radura in cui nessuno deve entrare.
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