La prima mossa è uno scivolone

Il Pd non è donna. Il Pd è il ritorno sulla scena di Enrico Letta dopo sette anni e, a vederli da qui, sembrano quasi un secolo

La prima mossa è uno scivolone

Il Pd non è donna. Il Pd è il ritorno sulla scena di Enrico Letta dopo sette anni e, a vederli da qui, sembrano quasi un secolo. È la scelta di un professore di quasi cinquantaquattro anni che lascia la cattedra parigina di «Sciences Po» per inseguire di nuovo la politica, come un vizio che non si riesce a smettere mai. Non è più, dicono, lo stesso di allora, quando lasciò il governo con una coltellata alla schiena. Non ha più paura del sorriso sornione che si nasconde dietro uno «stai sereno». Ci ha pensato prima di accettare e ha deciso che un Enrico alla segreteria del Pd ci sta bene. Il riferimento è all'altro Enrico, a Berlinguer, e non importa che a rivendicare l'orgoglio del nome sia un vecchio ragazzo cresciuto nella Democrazia cristiana, perché da anni i figliocci di Beniamino Andreatta si sentono un cuore più rosso degli eredi del Pci. È un modo per riscrivere la nascita del Pd. Non è il parto bastardo tra due tradizioni diverse. Non esiste un problema di identità come peccato originale. Non ha senso chiedersi «di chi siamo figli?». Letta lo sa. Il Pd, giura, è figlio dell'Ulivo. Il padre nobile è Romano Prodi e lui, Enrico, è tornato per vincere. Se poi questo non accade, pazienza. Il Pd deve imparare a stare all'opposizione, altrimenti qualcuno potrebbe sospettare che non sa stare lontano dalle stanze del potere. Ecco, più di qualcuno. C'è anzi chi pensa che le elezioni per il Pd siano come l'acqua per gli idrofobi. Allora la prima scommessa è imparare, nel caso, ad accettare la sconfitta politica, senza gridare ogni volta all'arrivo dei barbari o dei fascisti.

Letta però è qui per giocarsela e allarga le braccia a quel che resta della sua chiesa, dispersa su tutta la terra. Aprire e riunire la sinistra. È questa la strada. Il Pd come motore della coalizione. «Io - promette - parlerò nelle prossime settimane con tutti coloro che fuori dal Pd possono essere interessati al dialogo e a un linguaggio comune: Speranza, Bonino, Calenda, Matteo Renzi, Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni. Tutti i possibili interlocutori. E anche nella società, non solo nella politica». Poi toccherà dialogare con Giuseppe Conte e stringere un patto elettorale con i Cinque Stelle. La speranza, per Letta, è che questo avvenga da una posizione di forza. Il Pd non può vivere al rimorchio di Conte.

Qui però serve uno specchio. Torna il «chi siamo» lettiano. Il Pd deve essere donna, anche se per ora le donne restano in seconda fila. Il Pd non ha età. Da solo nessuno si salva. Lo ha detto il Papa. «Mi viene in mente la frase di Papa Francesco che dice che vorrebbe un mondo che sia un abbraccio fra giovani e anziani». Solo che i giovani devono aspettare. Ecco che allora cita Don Pino Mazzolari, il prete partigiano «carismatico e profetico»: «Dobbiamo essere il partito che fa parlare i giovani, non il partito dei giovani».

Il Pd che è «anima e cacciavite». Due parole che secondo Letta stonano un po' messe lì insieme, ma che dovranno diventare il paradigma della cultura di sinistra. Letta forse ritiene che a mancare sia il cacciavite, ma dovrebbe interrogarsi di più sull'anima. Dove sta? La risposta è scontata. È da qualche parte laggiù sul territorio, lì dove il partito non ha più occhi e orecchie. «Il territorio sarà il nostro campo da gioco. Siamo diventati il partito della Ztl».

Ecco, questo è un punto cruciale. Qual è la prima bandiera che alza Letta? Lo ius soli. Butta sul tavolo della politica il tema della cittadinanza. Sembra il suo colpo di teatro, perché è un tema che spacca la maggioranza di Draghi. Il messaggio è a Salvini. Questo non sarà il tuo governo. Ci stai da clandestino, non invitato. È un colpo sotto la cintura. È Enrico Letta che sembra voler dire: non sono più quello che se ne è andato via a testa bassa da Palazzo Chigi. Qui però un po' di considerazioni ci stanno. È questo il momento per sbandierare lo ius soli? L'Italia conta i morti. La pandemia è una prigione. Non si sa quando tutto questo finirà. C'è gente che fatica a immaginare un futuro. C'è una lunga striscia di fallimenti e un deserto economico all'orizzonte. Tanti domani non avranno un lavoro. Si respira rabbia, rancore e frustrazione. Troppi respirano ansia, troppi che urlano «non ce la faccio più», troppi che non sanno cosa raccontare ai figli. Siamo un Paese sull'orlo della crisi di nervi. Draghi ha messo su un governo da codice rosso, un governo di emergenza nazionale, un governo che dovrà portare l'Italia fuori dal buio. La prima mossa di Letta è un deragliamento. È come invitare la discordia a una conferenza di pace. Perché?

Il dubbio è che Letta lo abbia fatto per rivendicare la supremazia politica del Pd e se ne è fregato dei danni. Se l'Italia sbanda non sono affari suoi. Lo ha fatto perché sicuramente è convinto che lo ius soli sia una battaglia giusta, ma anche per fare della «nuova cittadinanza» il fulcro dell'identità della sinistra. È qui che pensa di radunare sentimenti e consensi. Su questo e su un'idea economica e sociale rubata in parte a Renzi: la condivisione dei profitti. «Se vogliamo studiare altri modelli neodistributivi, possiamo immaginare di prevedere la partecipazione dei lavoratori agli utili». È una terza via, con un ruolo forte dei sindacati. Sono i primi due pilastri dell'identità lettiana. Non si sa se basteranno.

L'impressione è che Letta continui a parlare a una sinistra metropolitana. Il territorio, la periferia, la provincia, continuano a percepirlo come un alieno.

È qui che si gioca la sua avventura. Non sembra troppo preoccupato. Per raccontare il suo ritorno ha citato un passo dei Promessi Sposi. Non si sento come Don Abbondio. «Stanotte ho dormito come il principe di Condè». Sereno, molto sereno.

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