Ci sono frasi destinate a passare alla Storia. E poi c'è la cronaca, condannata a registrare storie grottesche. Sabato, in piazza Bocca della Verità, a Roma, dal palco della prima piazza di governo dell'era Cinque Stelle, Luigi Di Maio - passato in poche ore da leader del movimento più anti-governativo della storia della Repubblica a vicepresidente del Consiglio dei ministri -, per zittire alcuni fischi di dissenso quando ha citato la parola «Stato» (stava presentando un imprenditore come nuovo consulente del ministero dello Sviluppo economico...), ha alzato la voce, proclamando: «Adesso lo Stato siamo noi». Il fatto che sia deflagrato un applauso totale che ha ricompattato il movimento, ha procurato un brivido a più d'uno.
Quando Luigi XIV, inaugurando un rigido accentramento dei poteri nella propria regale persona, con la chiamata alle alte cariche dello Stato di funzionari che prima di tutto erano fedeli esecutori della sua volontà, regalò all'umanità la celebre sentenza L'État c'est moi - «Lo Stato sono io» -, in fondo stava aprendo la prima, piccola crepa che nei tempi lunghi avrebbe fatto implodere un sistema (...)
(...) di potere ormai insostenibile e intollerabile. Oggi la ripetizione in chiave tragicomica di quella massima assolutista (declinata in una ancora più pericolosa prima persona plurale), raffigura perfettamente il nuovo mostro politico che si sta profilando all'orizzonte. E dio ce ne scampi.
Lo Stato, beninteso, è necessario. Ma come lo è la polizia per tenere a bada i ladri. In una società sana, in chiave veramente liberale e liberista, deve essercene il meno possibile. «Lo Stato è un ospedale per un'umanità malata, pazza o cattiva, e quindi è un'istituzione utile. Ma è molto malinconico pensare che sia necessaria», è una meravigliosa massima senza tempo di Giuseppe Prezzolini. «Lo Stato - ricordava a se stesso, da buon anarchico e conservatore - dovrebbe limitarsi a provvedere, in modo tecnico perfetto, la sicurezza dell'indipendenza nazionale, le comunicazioni rapide e a buon mercato, l'igiene necessaria al rendimento della popolazione, la scuola che sa scegliere i migliori, e soprattutto dovrebbe offrire un corpo di giudici imparziali, un codice di leggi chiare, un'esecuzione della giustizia rapida e poco costosa per tutti». Nient'altro. Tutto il di più viene dal male.
Il fatto che lo Stato sia un male necessario (nel migliore dei casi, nel peggiore è un male intollerabile) ce lo fa giustamente sopportare, seppur il meno possibile. Ma senza farci dimenticare - appunto - che resta un male. L'elenco dei pensatori, dei filosofi e degli stessi politici che hanno messo in guardia dalle perverse derive dello Stato è troppo lungo e autorevole perché qualcuno possa dimenticarlo. Solo il capo di un Movimento già in odore di dispotismo può rivendicare, con inspiegabile orgoglio, di «essere» lo Stato. Cinque stelle, un unico Potere. «Lo Stato siamo noi» è quanto di più vicino al totalitarismo comunista si sia sentito dire, aizzando la piazza, dopo la caduta del Muro. La Storia, come sempre, ritorna. Purtroppo.
Il Re Sole - «Lo Stato sono io» - esautorò i Parlamenti da ogni potere di controllo. E sappiamo come andò a finire. Luigi Di Maio - «Lo Stato siamo noi», più modestamente - cosa farà? Avocherà a sé il mandato dei suoi parlamentari?
È curioso. Il Movimento Cinque Stelle è nato, poi si è irrobustito e, infine, ha conquistato il Paese, vantandosi di essere anti-casta che, in bocca ai grillini, era solo una variante semantica dell'anti-statalismo.
Per anni hanno usato i privilegi, la corruzione e l'impresentabilità della Casta per screditare lo Stato, cioè l'élite di governo e di potere che costituisce le Istituzioni. Di cui ora, per scelta o per forza, fanno parte. E allora ai grillini non resta che compiacersene. «Lo Stato siamo noi». Che è il modo migliore per ricordarci che sono già uguali a Loro.Luigi Mascheroni
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