Economia

O Cairo o morte: Rcs non ha più scelta

Il Corriere sta colando a picco. Ma respinge chi può salvarlo

O Cairo o morte: Rcs non ha più scelta

Siamo certi che delle ultime vicende finanziarie del Corriere della sera pochi abbiano capito qualcosa. In effetti, non c'è molto da capire. Si tratta solo di parlare chiaro. La Rcs è messa male da tempo, per vari motivi: speculazioni sbagliate, investimenti azzardati, una gestione manicomiale. Sta di fatto che all'orizzonte si profila il fallimento. La Stampa della Fiat (Torino) non è un caso se è fuggita a gambe levate apparentandosi con il nemico storico: La Repubblica. Già questo dovrebbe essere un segnale d'allarme.

Ma alcuni degli azionisti di via Solferino non hanno afferrato il concetto o hanno fatto finta di non afferrarlo. Ingenuità? No. Illusione. Vari proprietari del Corriere sono ancora convinti di avere in mano un tesoro che, invece, oggi è solo un catafalco di debiti. Ciascuno di essi è persuaso di pesare nel gruppo e di avere la soluzione per raddrizzare la baracca. Figuriamoci. Le multiproprietà sono come le coalizioni politiche che vincono le elezioni. Le quali coalizioni all'inizio sono contente di avere conquistato il potere, poi, allorché giunge il momento di esercitarlo, ogni componente vuole imporre la propria volontà che contrasta con quelle di altri soggetti. Risultato. Comandano tutti, ovvero non comanda nessuno.

Si vive di compromessi e il governo non combina niente. Allo stesso modo, l'azionariato composito del Corriere è incapace di darsi una linea e l'azienda va a ramengo. Da anni, l'amministrazione del giornalone si barcamena tra veti e programmi dimezzati o male realizzati. Cosicché i conti fanno pena. La quotazione del titolo, un lustro fa o poco più, era 6. Adesso è circa uno. Un insuccesso. Chi aveva investito sei milioni di euro, oggi ne ha in tasca uno. Ecco perché nei giorni scorsi Urbano Cairo, l'unico editore vero rimasto sul mercato, ha lanciato una proposta mica tanto indecente: io, cari colleghi rilevo tutto il baraccone e, in cambio, vi do titoli della mia florida casa editrice. Qualcuno ha detto sì, ci sto, altri hanno gridato allo scandalo. Questi ultimi sono in errore. L'alternativa alla proposta del patron del Torino è portare a breve i libri in tribunale. Niente affatto conveniente. È inammissibile che un quotidiano, che non vende più quanto in passato, possa essere guidato da un editore che non c'è, ma esistono tanti padroni che non vanno d'accordo neanche sull'aperitivo da bere durante le assemblee dei soci.

Il direttore della testata, teoricamente un monarca, in realtà deve consultare tutti gli azionisti e, alla fine, perde la trebisonda: invece di dirigere l'orchestra, tenta di sopravvivere accontentando tutti, cioè nessuno, tantomeno il lettore che si sente disorientato ogni volta che gli capita di leggere un articolo. Non si raccapezza più, poveraccio, preferisce fuggire. Cairo, dicevamo, è l'unico imprenditore del ramo informazione che sappia fare egregiamente il proprio mestiere. La sua offerta è congrua, visto l'andazzo dei libri contabili che, quando sono brutti, sono veritieri. Diventasse lui il dominus dell'azienda Corriere, nel giro di un paio d'anni il transatlantico cartaceo sarebbe probabilmente salvo e ricomincerebbe a navigare in acque chete.

Il perché è presto detto. La stampa non è diversa dalla siderurgia. Merita di avere un timoniere che si raccorda col direttore politico (l'uomo dei contenuti e dello stile) e di non essere turbata da ingerenze che confondono le idee e impediscono di raggiungere la meta agognata: bilanci sani e un prodotto coerente con le aspettative del lettorato, cioè la borghesia lombarda, in particolare, e italiana, in generale. Il Corriere, come tutte le testate nazionali (e anche provinciali) soffre di una crisi strutturale; ha subito un calo di copie smerciate, inoltre patisce una seconda crisi, interna. O lo si cede a Cairo, che ha l'esperienza giusta per tagliare i costi e manovrare la ditta senza impoverirla (come ha fatto coi suoi settimanali popolari e nella tv, La7) oppure ci si rassegna a vederlo morire di stenti, bistrattato da gente che nella propria vita professionale si occupa di tante attività tranne che della fattura di quotidiani da presentare nelle edicole.

Non c'è nulla da aggiungere a questa aspra disamina. È solo necessario ricordare alla filiera degli attuali azionisti, che i loro titoli Rcs sono destinati, se non si provvede con urgenza a concludere l'affare in discussione, a valere zero e a provocare uno sfacelo non solamente economico.

Defunto il Corriere, si estinguerebbe un pezzo della nostra democrazia, già abbastanza malata.

Commenti