D opo tre settimane di attesa e un'ultima due giorni di faticosa trattativa sulle coperture con la Ragioneria generale dello Stato, la notizia è che alla fine il Consiglio dei ministri c'è stato davvero. E che le 464 pagine dell'ex «decreto aprile» - ribattezzato «decreto rilancio» perché «decreto forse metà maggio» suonava male - hanno finalmente visto la luce. Cosa scontata, ma fino a un certo punto dopo i rinvii delle ultime 48 ore e gli slittamenti a ripetizione di ieri. Perché il Consiglio dei ministri che doveva essere a metà mattina è stato prima rinviato alle 14, poi alle 18 ed è infine iniziato che erano quasi le 19.
Un'immagine di precarietà permanente, sufficiente per comprendere - al netto dell'importanza di un provvedimento da 55 miliardi che, come dice Giuseppe Conte, «vale due manovre» - quanto agitate siano le acque nella maggioranza. Che, nonostante l'emergenza che stiamo vivendo ormai da quasi tre mesi, continua ad arrancare. E che appena riesce a chiudere una porta, ancora prima di provare finalmente a trasmettere un'immagine di compattezza, si ritrova con qualche guastatore a puntare i riflettori sull'instabilità di un governo che sembra ormai avvitarsi come un elicottero fuori controllo. Ieri, per dire, proprio mentre a Palazzo Chigi cercavano faticosamente di chiudere la quadra sul decreto rilancio, Matteo Renzi tornava subito ad affondare i colpi su Conte. Con la capogruppo di Italia viva alla Camera, Maria Elena Boschi, che invita il premier a «riferire a Montecitorio prima del prossimo Dpcm», mentre il suo omologo al Senato, Davide Faraone, fa sapere che se le ragioni di Iv «saranno ascoltate» allora «non ci sarà alcun motivo per sfiduciare Alfonso Bonafede». Insomma, ancora non è chiusa la pratica del decreto rilancio che già Renzi torna a spargere sale su altre due ferite: la decretazione d'emergenza di Palazzo Chigi e, soprattutto, la mozione di sfiducia da cui mercoledì dovrà difendersi il ministro della Giustizia che, incidentalmente, è pure il capodelegazione del M5s nell'esecutivo. Un appuntamento, quest'ultimo, su cui l'ex premier continua a tenere alta la tensione, lasciando trapelare che Italia viva non ha ancora sciolto la riserva e potrebbe dunque votare la sfiducia insieme alle opposizioni.
L'insofferenza, però, non è solo quella di Renzi. Anche nel Pd, infatti, il clima che si respira è teso quanto mai lo era stato prima. «In momenti così delicati non possiamo muoverci con tanta approssimazione», si è sfogato con i suoi Dario Franceschini, ministro dei Beni culturali e capodelegazione del Pd nel governo. Ce l'ha con quello che considera un «ennesimo pasticcio» del governo, che all'esterno ha dato un'immagine di grande confusione. Il tira e molla sulle coperture con la Ragioneria generale, d'altra parte, ha sfiancato tutti. Perché è stata una vera e propria guerra campale, con misure che sono entrate ed uscite dal testo provvisorio del decreto neanche fosse una lotteria. Non è un caso che ormai a tarda sera, ben dopo il Consiglio dei ministri e quando si è già conclusa la conferenza stampa di Conte, il testo finale del provvedimento ancora non è disponibile. E non perché Palazzo Chigi non lo fornisca, ma perché - ormai alle 23 di sera - ancora non esiste una versione definitiva.
Lo sfogo di Franceschini, dunque, riassume i timori dei vertici dem, preoccupati dal fatto che la cosiddetta «fase due» sia sostanzialmente ingestibile in queste condizioni. Non è un caso che a largo del Nazareno rimbalzino in queste ore rumors su un possibile - o auspicabile? - rimpasto.
La convinzione è che sia necessario un cambio di passo prima dell'estate, soprattutto in alcuni ministeri chiave, come per esempio quello della Scuola. Ma nel mirino ci sono anche alcuni dicasteri di seconda fascia, perché è evidente che la questione è anche d'immagine e alcuni ministri sono considerati «assolutamente inadeguati».
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