La provincia scossa dal virus più globale

La provincia scossa dal virus più globale

La mascherina in paese si mette solo per questioni concrete: se dai il verderame, se colori il motorino, se fai la legna... Al massimo alla sfilata di carnevale. Ma metterla per non prendere un raffreddore è roba da matti, quasi come pagare 15 euro un'insalata. E fino a un paio di giorni fa pareva di vederli - i saggi e concreti italiani di pianura - mentre col dito mimavano le rotelle storte dei cittadini, con la loro vita stressata fatta di contatti e appuntamenti, traffico e paranoie.

Oggi dalla Bassa ai Colli Euganei le mascherine sono esaurite, ma nessuno sta dando il verderame. E si respira un senso di smarrimento che va oltre i cordoni sanitari e la paura, un'incertezza che mira al cuore dello stile di vita dell'Italia di provincia. Quella che pulsa orgogliosa al di fuori delle tangenziali e delle aree metropolitane, quella che ha fatto del «territorio» la sua comfort zone, quella immune al terrore di attentati, che tanto qui fra campi e fabbrichette chi vuoi che venga a farsi esplodere?

Nessuno pensava che il coronavirus non sarebbe arrivato nel nostro Paese. Se un battito d'ali di farfalla poteva provocare un terremoto in Texas nel 1962, quando Lorenz illustrò la famosa teoria del Butterfly effect sulle piccole variazioni che generano giganteschi cambiamenti, figuriamoci cosa può fare un'epidemia nel 2020, con la facilità di movimento e interconnessione di oggi. Però nessuno si aspettava che i focolai sarebbero stati a Casalpusterlengo e Vo' Euganeo, Cremona e Dolo, il Lombardo-Veneto profondo troppo spesso ingiustamente accusato di essere ottuso e chiuso solo perché affezionato al suo dialetto e alle sue radici.

Spiegare perché il contagio in Italia non sia partito dalle Chinatown di Milano e Prato o dalle città di porto, ovvero dai centri più aperti al commercio e alle relazioni internazionali, spetta agli infettivologi. Forse perché le grandi comunità cinesi sono molto più attente e rigorose nella profilassi; forse perché se vai in tram in via Paolo Sarpi ti lavi le mani con l'amuchina fino a scorticartele, ma se vai in bici dal droghiere in piazza a Codogno no, perché qui i cinesi sono rari come pinguini. Di certo fa impressione sapere che Adriano Trevisan si è ammalato giocando a scopa al bar, davanti a un'ombra di vino, e non in un ristorante fusion all you can eat. E che i ricoverati nel Lodigiano si sono infettati andando al corso di primo soccorso dei volontari o a una partita di scarponi dilettanti, non facendo sconsiderati viaggi in Oriente.

Di fatto il virus più globale degli ultimi decenni si è diffuso in Italia nel più quotidiano e banale dei metodi di trasmissione, lungo le strade cantoniere dello Strapaese, attraverso le abitudini umane più provinciali e genuine. Facendo così a pezzi l'inconscia filosofia da divano che in fondo cova nel dna di molti: se stai a casa tua non ti succederà nulla di male e vivrai tranquillo.

Per questo domani, quando l'emergenza sarà passata, la provincia italiana avrà bisogno di tempo per riprendersi. Per recuperare quella serenità costruita con il lavoro e il lathe biosas, il «vivi nascosto» e lontano dal logorio del multiculturalismo esasperato.

Tempo per tornare a dividere una caraffa di Campari col bianco con gli amici, per capire che un «etciù» non può fare paura come un «Allah Akbar». E per tornare a non invidiare quei picchiatelli dei cittadini, che mettono la mascherina anche senza dare il verderame.

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