Gli sbagli di Matteo su pm e moderati

Il leghista ha sottovalutato il dna dei grillini e pensa di allearsi soltanto con la Meloni

Gli sbagli di Matteo su pm e moderati

Può accadere in un Paese normale che un presidente della Commissione antimafia, nel caso il grillino Nicola Morra, possa registrare un colloquio nel soggiorno di casa sua con l'ex segretario del sindaco di Cosenza, all'insaputa dell'interessato, e lo porti alle dieci di sera a dei finanzieri per trasmetterlo a un procuratore aggiunto che su quella conversazione aprirà dieci fascicoli di indagine? No. Ed ancora, che uno dei finanzieri che hanno ricevuto il nastro e il magistrato in questione, poco dopo vengano chiamati alla Commissione antimafia il primo come segretario del presidente Morra e il secondo come consulente a tempo pieno? Tanto meno. «Per un fatto del genere - osserva Luca Paolini, il più garantista dei leghisti - bisognerebbe chiedere le dimissioni di Morra. Luciano Violante 25 anni fa si dimise per molto meno». E invece niente, nell'Italia di oggi nessuno si meraviglia più. Altro esempio. Può capitare in un Paese normale che un magistrato della Corte d'appello di Bari, il dottor Ancona, dia un'interpretazione del tutto personale della legge elettorale (unica in tutti i collegi della penisola) determinando l'elezione della senatrice di Forza Italia, Carmela Minuto, a scapito di un altro candidato azzurro, Michele Boccardi? In un Paese normale proprio no. Già, il caso di un magistrato che interpreta a suo modo il Rosatellum lascia perplessi (un altro giudice, l'ex presidente del Senato Pietro Grasso, ne è rimasto scandalizzato), ma che a un anno dalle elezioni la vicenda non sia stata risolta per colpa dell'inerzia della Giunta del Senato (cioè del potere politico) che dovrebbe affrontare il caso, è quantomeno paradossale. Risultato: nel Belpaese le elezione di un parlamentare è determinata non dai voti ma dal volere di un magistrato. Appunto, nell'Italia di oggi la magistratura è il primo potere. Può capitare pure che la Procura di Agrigento sequestri la nave Sea Watch e faccia scendere i migranti, proprio mentre il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, in tv continua a dare ordini affinché restino a bordo. La questione non riguarda il fatto in sé, e cioè se fosse giusto dare l'ok allo sbarco o no, ma pone un interrogativo di fondo: chi comanda in Italia il ministro dell'Interno, il governo o i magistrati? Salvini ha parlato di «atto politico», di «procuratori che vogliono sostituirsi al governo», vi ha intravisto una sorta di «escamotage per fare sbarcare i migranti» ipotizzando addirittura verso i magistrati «l'accusa di favoreggiamento per traffico di essere umani».

Opinioni che hanno un loro fondamento, possibili verità, solo che il leader della Lega dimentica come gli equilibri di questa maggioranza, per essere chiari l'alleanza con i grillini, cioè con una forza che fa del giustizialismo «un credo» e che considera ogni critica alla magistratura una sorta di «lesa maestà», abbia contribuito non poco insieme alle leggi prodotte da questo governo a rendere più marcata in quest'ultimo anno quell'invasione di campo che ha condizionato gli ultimi trent'anni della Storia Repubblicana. «Ci stiamo trasformando sostiene il forzista Roberto Occhiuto - in una Repubblica giudiziaria e nessuno si scandalizza più. Le invasioni di campo restano impunite, nessuno si oppone e avvengono nella più completa impunità». In realtà il ministro dell'Interno è complice e vittima nello stesso tempo, di questo processo. Complice perché non ha valutato con attenzione il partner di governo a cui si è legato: nel dna del movimento 5Stelle, il «governo dei giudici» è uno dei geni caratterizzanti. I rapporti con la vecchia rivista Micromega, con Il Fatto, dimostrano che è un movimento nato in parallelo con l'affermarsi nella magistratura di una corrente nata sulle tesi di Piercamillo Davigo, testa d'uovo del vecchio pool di Mani pulite. Vittima perché Di Maio per risalire la china nei sondaggi ha giocato tutta la sua campagna elettorale su una nuova emergenza Tangentopoli che ha messo nel mirino in primo luogo la Lega. Eppure, basta guardare i dati del ministero dell'Interno o del Parlamento, per verificare che i reati di corruzione o concussione nelle amministrazioni pubbliche in dieci anni si sono quasi dimezzati. Lo stesso Sabino Cassese, che tra le tante qualità non ha certo quella di essere un ideologo del garantismo, ammette che «la corruzione reale è molto più bassa di quella percepita». Solo che per riabilitare agli occhi dei delusi «l'incompetenza grillina» c'era bisogno di ridare di nuovo un senso allo slogan «onestà, onestà». Insomma, per parafrasare la celebre frase di Leonardo Sciascia sui «professionisti dell'antimafia», i grillini per ridarsi «un perché» si sono proposti come «i professionisti anticorruzione». Un'operazione che potrebbe avere successo visto che rispetto ai dieci punti di vantaggio che la Lega aveva sui 5Stelle negli ultimi sondaggi pubblicabili, ieri all'ippodromo Masia (un caso omonimia con il patron di Emg) il purosangue «Fulmine verde» staccava poco più di tre lunghezze «Tuono giallo». Se fosse vero non sarebbe una rimonta da poco.

Quindi, il primo errore che Salvini rischia di pagare è quello di essersi legato ad un movimento dall'anima «giustizialista». Il secondo, non meno grave del primo, invece, è quello di immaginare per il futuro che l'Italia possa essere governata da una coalizione «destra+destra». È la suggestione che si intravvede dietro le parole di Giorgia Meloni quando ipotizza un governo Lega-Fratelli d'Italia, o quando Salvini sogna un rassemblement populisti-sovranisti anche per il governo di Roma. Un Paese complesso come l'Italia non si governa dalle estreme. Anche gli eredi del Pci hanno avuto bisogno di un Prodi. Se ci provi rischi di beccarti «i lenzuoli» sui balconi, l'accusa di nemico della democrazia e slogan «antifascisti», magari datati, ma che sono un richiamo della foresta per una certa magistratura. Ne sa qualcosa il Cav e comincia a scoprirlo Salvini. «È una questione seria sui cui dovremmo ragionare», ammette il presidente dei senatori del Carroccio Massimiliano Romeo. Né tantomeno per essere accettato dal club dei moderati basta un rosario: la tradizione racconta che tra i dc, che pure la cristianità l'avevano nel nome, l'unico che nei suoi giri elettorali faceva cadere un rosario per dimostrarsi un fervente cattolico inchinandosi davanti ad una Madre Superiora in qualche convento o baciando la mano dell'Abate di un monastero, era Oscar Luigi Scalfaro. Figurarsi un po'. Salvini per la verità in privato questa pretesa non ce l'ha. Ieri all'uscita di uno dei tanti talk show elettorali il leader della Lega ha ironizzato su quella battuta: «Io santo? Io sono il peccatore tra i peccatori». Poi per spiegare il dinamismo della sua campagna elettorale ha confidato: «Tutto merito di un intruglio di erbe che mi fa la mattina Francesca (Verdini, ndr)». Solo che oltre agli intrugli di Francesca, Salvini dovrebbe anche accettare i consigli di papà Denis: «La prima volta che l'ho visto raccontava Verdini qualche settimana fa - ho parlato con lui per cinque ore.

Gli ho spiegato che con questa storia del governo basato sull'alleanza tra lui e la Meloni non va da nessuna parte. E anche se si farà, sarà un guaio. Alla fine saranno costretti a tornare indietro. Per vincere il centrodestra ha bisogno di qualcosa di centro. Non so se l'abbia capito».

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