Cronache

"Si devono rieducare mostrando come riducono le vittime"

Prima di tutto le parole. Non sono «pirati» ma «delinquenti». «Nell'immaginario - spiega Carlo Alberto Romano, docente di criminologia all'Università di Brescia - il pirata è un mascalzone ma in fondo è simpatico. Chi fugge dopo un incidente crea sofferenza ed è irrispettoso delle regole. Non è molto diverso dagli altri criminali».

Professore, come si diventa delinquenti della strada?

«Tutto nasce dalla sfera dei comportamenti al volante. L'auto diventa una micro cellula di proprietà, dove il guidatore si sente il sovrano di una dimensione che nessuno può attaccare. Da qui la prevaricazione e l'aggressività. I litigi e le condotte rischiose alla guida. Ci si sente padroni di fare ciò che si vuole».

E di non prestare soccorso.

«Il senso di onnipotenza alla guida impedisce di riconoscere la propria responsabilità. L'incidente fa crollare l'invulnerabilità e non si sa cosa fare. Si fugge, per poi in alcuni casi riflettere e consegnarsi. Altre volte si innescano deresponsabilizzazione e autoassoluzione, incapacità di valutare i propri atti e capire il dolore altrui. Questo rende pericolose le strade».

Cosa si può fare?

«Più prevenzione nelle scuole guida ad esempio: non solo regole ma educazione alla guida responsabile. Mostriamo le conseguenze degli incidenti, spieghiamo cosa succede con l'abuso di sostanze. Che si può togliere la vita a qualcuno».

L'«omicidio» stradale è utile?

«L'inasprimento delle pene non è quasi mai un deterrente. Non saranno sei mesi in più di carcere a cambiare le cose. Le pene non devono essere più forti ma più idonee. Occorrono metodi che consentano al reo di rendersi conto di cosa ha fatto e delle conseguenze delle sue scelte. Vale per gli omicidi stradali, per la pirateria, per la guida in stato di ebbrezza. Il punto è evitare la sottovalutazione di certi comportamenti e quindi le recidive».

Come?

«Ho constatato che i lavori di pubblica utilità danno risultati. Chi ha causato un incidente può lavorare nei centri per politraumatizzati e ritrovare negli occhi dei disabili della strada e nella voce dei parenti delle vittime le conseguenze del suo agire. È il solo modo per responsabilizzare i colpevoli.

E anche i familiari delle vittime hanno un ritorno positivo da questa presa di coscienza».

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