La Signora cambia pelle e diventa un brand

La Signora cambia pelle e diventa un brand

Dimenticate il calcio per come lo conoscete. Dimenticate il pallone che rotola e viene preso a pedate. Dimenticate anche l'idea di business legata al football come l'avete immaginata, discussa e magari anche criticata finora. O meglio partite da quelle idee, cambiatele, sviluppatele e andate oltre. Perché per capire cosa ha fatto e sta facendo la Juventus bisogna andare oltre. Il calcio è passione, sudore, emozione e tifo ma non solo. È una cosa dannatamente importante. E non è soltanto calcio.

La Juventus presenta il nuovo logo. E allora? E allora cambia tutto. Nell'addio al vecchio stemma ovale, con i colori bianconeri e la zebra stilizzata c'è molto di più. C'è il passaggio a un logo marchio, moderno e studiato a tavolino, una doppia «J» stilizzata che si staglia sotto la scritta «Juventus» e che richiama un ideogramma giapponese. Ad alcuni tifosi, puristi e legati alla tradizione, la cosa non piace e sui social è partita anche la protesta. Ma nella novità grafica c'è anche una rivoluzione culturale e sociale. C'è la Vecchia Signora che si fa nuova, nuovissima, la più nuova di tutti e si proietta nel futuro. Un brand, un logo, un marchio che siano riconoscibili in tutto il mondo e che superino il concetto di Juve come semplice squadra di calcio e che diventino l'idea di Juve come insieme, come concetto, come mondo a sé stante, come idea, come stile. Un po' come grandi aziende il cui marchio ha superato in visibilità il nome. Lo Swoosh di Nike, le bande di Adidas, la mela di Apple, il cavallino rampante di Ferrari. La «J» di Juventus, un qualcosa che al tempo stesso richiami il pensiero al campo di calcio ma che riesca ad andare più avanti, che resti impresso nella mente così come in migliaia di articoli di merchandising, dal portachiavi all'automobile fino, ovviamente, alle maglie da gioco (ma quello solo a partire dalla prossima stagione). L'idea è tanto semplice quanto complessa e innovativa: non avere un marchio ma essere un marchio.

Lo spiega Andrea Agnelli, il presidente della Juventus ed erede di una famiglia-dinastia che la Juventus ha nel sangue e nel cuore. Andrea Agnelli in versione innovatore, uno che non si accontenta di vincere sul campo. Quello semmai lo pretende («È l'unica cosa che conta», ribadisce) ma lì non si ferma. «Non dobbiamo dimenticare chi siamo ma siamo qui per presentare il futuro. Il futuro per noi significa crescere come entità, come squadra e come società - spiega il numero uno bianconero -. Per continuare a vincere dobbiamo evolvere il nostro linguaggio e dobbiamo cambiare la nostra pelle. Vogliamo comunicare con nuovi target: i bambini, le donne, i cosiddetti millennials con un linguaggio evocativo rivolto all'intrattenimento a 360 gradi. La Juventus - conclude - vuole diventare mainstream».

Lo spiega Andrea Agnelli ad una platea di 700 invitati di cui solo una minima parte è legata al mondo del calcio. Ci sono personaggi dello spettacolo, della cultura, della moda, della finanza. Una serata glamour organizzata a Milano, e non nella «canonica» Torino, quasi a volersi scrollare di dosso quel residuo alone di provincialità grazie alla città più internazionale d'Italia. Anche la location scelta, il Museo della scienza e della tecnologia, non è casuale nell'ambito di un percorso di crescita, innovazione e di sviluppo.

«Il mondo del calcio vive troppo nel presente», dice ancora Agnelli. E il presente dice che una squadra italiana non è in grado, se non con estemporanea fatica, di competere con le grandi di Spagna, Inghilterra e Germania. Economicamente non c'è partita. E allora la rivoluzione juventina per cercare di colmare il gap guardando oltre al mero discorso di bilanci e plusvalenze. «Venite con me nel futuro», annuncia Agnelli.

«Black and white and more», lo slogan. Il bianco e il nero non si toccano. Nel «more», il di più, c'è tutto un mondo. Forse meno romantico, forse un po' visionario. Ma probabilmente necessario. Per crescere e per continuare ad esistere.

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