Un fatto è incontestabile e va riconosciuto a Giuseppe Conte e al suo governo: sono riusciti nell'impresa ardua, nella missione a dir poco impossibile, di dimostrare, può apparire assurdo, che non c'è bisogno di un governo in una fase di crisi.
Nella prima fase dell'epidemia il premier è arrivato a decretare il lockdown solo quando tutti l'hanno reclamato a gran voce, cioè 40 giorni dopo la proclamazione dello stato d'emergenza. Se lo avesse fatto prima, quando l'epidemia era ancora contenibile, ci sarebbero stati un lockdown meno lungo e, forse, meno vittime. Poi, ha avuto tre mesi per pianificare, progettare, simulare la Fase 2. Ebbene, siamo arrivati alla riapertura senza App per tracciare i contagiati, senza tamponi, senza mascherine, senza sostegni economici: insomma, un salto nel buio. In una battaglia in cui il tempismo è molto, se non è tutto, il governo si è mosso a rallentatore. L'ultimo esempio è il decreto Rilancio, che a quasi una settimana dall'approvazione del consiglio dei ministri non è ancora arrivato al Quirinale. Così la Sace, che deve intervenire per gli aiuti alla grande e media impresa, sta agendo nei fatti senza coperture. Ed ancora: essendo scaduto il decreto Cura Italia, fino a quanto non entrerà in vigore il nuovo, verrà meno il divieto di licenziamenti.
Per carità di Patria non parliamo dell'efficacia del sostegno alle piccole imprese o della cassa integrazione: approfittando della crisi durante il lockdown una famiglia mafiosa ha acquisito quattro locali a Roma. Senza contare che le modalità della riapertura sono il frutto di una sorta di insurrezione delle Regioni nei confronti del governo centrale.
A ben guardare, quindi, la capacità che il Paese ha mostrato nel fronteggiare e reagire al Covid-19 è tutta sacco dei suoi cittadini, dei loro risparmi, della loro intelligenza, del loro istinto di sopravvivenza, della loro disciplina. Una capacità che ha messo in evidenza i limiti di un governo «inutile». C'è chi azzarda addirittura un giudizio più severo. «Non è inutile - osserva Renato Brunetta -: è di più e peggio. Conte si muove solo in una realtà virtuale, mediatica, è come Alice nel Paese delle meraviglie di Casalino (portavoce del premier, ndr)».
Brunetta non ha torto. Il premier è rimasto in piedi solo grazie alla comunicazione. Dimostrando che non è un caso che sia espressione di una società del ramo come la Casaleggio associati. Per cui l'accusa del numero due del Pd, Andrea Orlando, che il governo è nel mirino di un complotto dei grandi gruppi editoriali è quasi paradossale se non comica. Semmai è vero il contrario: per ciò che ha fatto e, soprattutto, non ha fatto, c'è stata una sorta di acquiescenza da parte dei grandi giornali verso Conte e il suo governo, magari in ossequio all'emergenza. Ieri, ad esempio, Paolo Mieli sul Corriere si è dovuto arrampicare sugli specchi per dare la sufficienza al premier. Detto questo un governo non si può sostenere da solo o sulla comunicazione. Per citare quel camaleonte di de Talleyrand, che servì Luigi XVI, la rivoluzione, Bonaparte e di nuovo la monarchia con la stessa spregiudicatezza con cui Conte è passato dai colori gialloverdi a quelli giallorossi: «Un governo che si sostiene è un governo che cade».
Appunto, più trascorrono le settimane, più si passa dalla fase uno alla fase due, e più ci si accorge che questo premier, nei fatti, può affidarsi solo a se stesso. Luigi Di Maio ha spiegato e rispiegato che la vocazione dei 5stelle è quella di essere «una forza di governo». Traduzione: secondo lui il Movimento per incidere, Conte o non Conte, deve restare nella stanza dei bottoni. Il Pd, invece, rinvia tutto alla capacità del governo di mantenere le promesse fatte: visti i segnali dell'ultimo mese e di questi giorni l'appoggio di Zingaretti e compagni è a scadenza in base ai risultati.
Infine, c'è Renzi, quello che al momento, è nella condizione più delicata. Dopo mesi di insofferenza ha aperto una trattativa bilaterale con Conte. Ha messo sul tavolo il piano choc sulle grandi opere e una possibile revisione della legge sulla prescrizione. Solo che domani deve dire la sua sul destino del ministro Bonafede di cui ha chiesto le dimissioni ancor prima che sull'Italia incombesse l'epidemia. Da allora il Guardasigilli non ha migliorato la sua posizione, semmai l'ha peggiorata: si è fatto trovare impreparato dai rischi del Covid-19 nei penitenziari; ha subito rivolte carcerarie che sono costate la vita a tredici detenuti; nella sua gestione centinaia e centinaia di mafiosi hanno messo in scena tra le polemiche una sorta di «tarantella», uscendo e tornando in carcere per motivi di salute; una delle icone del movimento, il pm Nino Di Matteo, l'ha accusato di essersi rimangiato la promessa di un suo approdo al Dap, ipotesi che terrorizzava i mafiosi. In più gli è scoppiata in mano la grana delle intercettazioni del magistrato Palamara che hanno squarciato il velo sulla gestione nel Csm delle nomine dei magistrati. Per cui non è una domanda retorica chiedersi se un ministro così delegittimato possa rinsaldare la fiducia dell'opinione pubblica con il mondo della giustizia.
Insomma, Bonafede non dovrebbe essere sfiduciato domani, ma avrebbe dovuto dimettersi ieri. Tant'è che dopo la mozione di sfiducia del centrodestra è arrivata anche quella di Emma Bonino. E questa espone ancora di più Renzi. L'ex premier, infatti, è il primo a dire nei colloqui con i suoi che «è difficile non votare la mozione di Emma». Come pure «appoggiare Bonafede, e il suo giustizialismo, senza rivedere la prescrizione equivale a perdere la faccia». Poi però intervengono le valutazioni politiche. Del tipo: «L'epilogo migliore sarebbe una sfiducia a Bonafede senza conseguenze sul governo: ma tutti sanno che tra il premier e il Guardasigilli c'è un mutuo soccorso». O, ancora: «Se noi votiamo contro e poi Berlusconi lo fa appoggiare da qualcuno dei suoi, rischiamo di esporci senza ottenere nessun risultato». Oppure: «Prendersi la responsabilità di una crisi oggi che il Paese è costretto ancora a sperare, è delicato. Meglio farlo tra due mesi quando si sentiranno i morsi della recessione». E infine: «Se si va verso un governo di tutti rischiamo di non contare nulla anche se a me importa poco».
Tutto vero. Solo che in politica bisogna avere grandi capacità di manovra (una qualità in cui Renzi è insuperabile), ma nel contempo è necessario anche essere coerenti con i principi e i contenuti che motivano una presenza in politica: e l'appoggio a Bonafede mette in discussione tutti quelli a cui si è ispirata Italia Viva.
Se si trascurano o si infrangono, si rischia di ballare una volta sola. La parabola di Angelino Alfano docet. Non per nulla il competitor e avversario del renzismo Carlo Calenda rimarca il dilemma: «Renzi è capace di fare qualsiasi cosa.
Se appoggia Bonafede, però, rischia di fare la fine di Alfano, se non l'ha già fatta. E di essere complice di un governo che ci porterà al default. E pensare che se fossimo tutti e due all'opposizione, ci sarebbero le premesse per un rapporto diverso».
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