Attività sospette. Sarebbe questa la colpa di Libero secondo Twitter, che ha sospeso l'accesso all'account del quotidiano, come aveva fatto con quello di Trump. Poche parole, nessuna motivazione, né possibilità di appello. Il fatto che la censura dei social colpisca un organo d'informazione italiano non basterà a far capire i rischi di un arbitro insindacabile e insondabile della libertà di parola. Magari si potrebbe riflettere almeno sul giudizio di Alexey Navalny, un simbolo delle libertà negate: «La messa al bando di Trump da Twitter è un inaccettabile atto di censura». E su due eventi legati da un filo comune. Uno: la manovra sospetta del Signore dei dati Mark Zuckerberg sulle informazioni che condividiamo via Whatsapp. Due: l'altrettanto sospetta svolta anti-populista di Faang, sigla che sta per Facebook, Apple, Amazon Google e Netflix. Cui si aggiunge anche Twitter. Finora nessun dubbio ha sfiorato gli osservatori progressisti di casa nostra che in questi giorni hanno gioito della museruola a Trump e gioiranno di un Vittorio Feltri silenziato ricorrendo a due argomenti apparentemente liberali. Il più buffo è che siccome The Donald ha altri mezzi per parlare non è censura. Tesi che riscrivere la storia, rendendo accettabile il Minculpop grazie a Radio Londra. Il secondo argomento è che siccome Facebook e Twitter sono aziende private possono fare quello che vogliono con i propri iscritti. Argomento più dotato di senso, se si ignora deliberatamente che la libertà di azione totale dei social network discende soprattutto da una carenza di regolamentazione. Nessuno invoca la mano occhiuta dello Stato a mettere la briglia a Facebook ma l'analogia con altre attività «aperte al pubblico» non può essere ignorata. La compagnia telefonica non potrebbe togliermi la connessione perché l'ho usata per esprimere idee a lei sgradite. Né un negoziante potrebbe decidere di non servire un cliente perché manifesta convinzioni politiche opposte. Eppure il negozio è proprietà privata. Il punto centrale è qualificare l'attività dei social network: sono negozi, compagnie telefoniche o qualcos'altro? Il problema non è sottoporre Twitter all'autorità di uno Stato, ma dare all'utente certezza sui suoi diritti. Per quanto ricchi e potenti, del resto, i social non potranno ignorare per sempre le ripercussioni politiche di decisioni che spesso vengono cavalcate con opportunismo. Quante decine di milioni di dollari ha incassato Facebook per pubblicare controversi messaggi a pagamento di Trump? Quante volte si è piegato all'autorità di Stati dittatoriali? Quanto ci vorrà prima che un simile arbitrio colpisca anche fazioni politiche più care all'establishment progressista? Un esempio: big tech come Facebook, ma anche Amazon, sono pronte a dare battaglia contro la web tax che piace all'Unione europea. E se lo facessero cancellando il profilo di Macron o della Merkel? Anche allora diremmo che esercitano la libertà d'impresa? La diffusa ipocrisia benecomunista diffida dell'aspirazione al profitto delle multinazionali, mentre bisognerebbe diffidare di quelle che si atteggiano a moralizzatori. Il motto aziendale «Don't be evil», non essere malvagio, è l'aspetto più inquietante di Google. Chiudere gli occhi su questi rischi per un momentaneo interesse può portare all'eterogenesi dei fini. Invece dell'internet libero e universale decantato delle utopie libertarie si rischia di finire in un medioevo feudale della Rete. Il caso Whatsapp ha spinto ieri Erdogan a invitare i turchi a passare a Bip, il servizio di messaggeria di Turkcell.
In Cina il servizio locale, super sorvegliato, Wechat è il più diffuso. E forse non è così desiderabile una secessione dai social verso un mondo dove ciascuno frequenta solo il network dove tutti la pensano allo stesso modo.
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