Zingaretti usa il "metodo Salvini" e guarda alle urne

Zingaretti usa il "metodo Salvini" e guarda alle urne

Il paragone è per certi versi dissacrante, tanto i due sono distanti come posizioni politiche e modo di porsi. Però è ai piani alti di Largo del Nazareno che qualcuno nei giorni scorsi ha fatto notare come Nicola Zingaretti stia da qualche tempo seguendo le orme di Matteo Salvini. O, almeno, di quel Salvini che lo scorso luglio ha logorato giorno dopo giorno il governo di cui era vicepremier evocando mattina e sera il ritorno alle urne contro i troppi «no» del M5s. Allo stesso modo, al netto ovviamente delle differenze caratteriali e della comunicazione decisamente meno aggressiva, il segretario del Pd sembra ormai da tempo sintonizzato sul «metodo Salvini». Prima rilancia inviti all'unità della maggioranza di governo, poi esorta a smetterla con «polemiche e distinguo» sulla manovra e infine non esita ad evocare le urne anticipate. Non lo fa minacciandole, perché non è nel carattere del personaggio. Si limita solo a dire che il Pd «non vuole andare alle elezioni, ma se non c'è un buon governo le cose non vanno bene». Oppure fa filtrare ragionamenti del tipo «a forza di tirarla, la corda si spezza» (monito indirizzato a Luigi Di Maio e Matteo Renzi). O, ancora, si affretta a spiegare che «il Pd non sta nell'esecutivo per le poltrone o per le nomine ma solo se si cambia e si migliora l'Italia».

Zingaretti, insomma, non brandisce l'eventualità di una crisi di governo come un randello, ma ci tiene a non perdere occasione per ricordare a tutti - soprattutto agli alleati - che le elezioni anticipate sono uno scenario non solo possibile ma anche sul tavolo. «Non sono per far cadere il governo ad ogni costo», diceva solo tre giorni fa. Negare per insinuare. Per lasciare intendere a Di Maio e Renzi che i margini per continuare a fare l'opposizione interna al Conte 2 sono ormai ridotti all'osso. Soprattutto dopo che è esplosa la crisi dell'Ilva, una bomba sociale che quando Mittal spegnerà i forni di quella che è la più grande acciaieria d'Europa rischia di far definitivamente saltare il labile equilibro che tiene in piedi l'esecutivo. «Potrebbe essere la nostra Tav», è il senso dei ragionamenti del segretario dem dopo un Consiglio dei ministri in cui mai come prima si è arrivati ad un passo dalla crisi. Non è un caso che proprio sull'Ilva Zingaretti ieri si sia affrettato a dire che «non c'è alcun rischio per la tenuta del governo». Si è stati così vicini all'implosione che non si può non gettare acqua sul fuoco.

D'altra parte, non è un segreto che già da tempo il Pd fosse in sofferenza davanti a un Di Maio che dopo aver incassato tutto quello che voleva in fase di formazione dell'esecutivo ha poi continuato a puntare i piedi su tutto come un bambino viziato davanti a una cesta di caramelle. Per non parlare della guerra dei renziani di Italia viva. Due fronti che i dem sapevano sarebbero stati caldi, ma mai fino a questo punto. Ai quali ora si aggiunge l'Ilva, una vera e propria emergenza nazionale se lo Svimez parla di una perdita che toglierebbe al Sud circa l'1% del suo Pil annuo.

Ed è per questo che nelle ultime ore sono sempre più quelli che pensano che la strada del Conte 2 sia ormai troppo accidentata. E che anche l'approvazione della manovra - una sorta di «clausola di salvaguardia» sull'esecutivo almeno fino al 31 dicembre - non sia più una garanzia assoluta di tenuta. D'altra parte, Zingaretti ha sì deciso da giorni di seguire il «metodo Salvini» - non solo evocando le urne ma anche con una serie di appuntamenti elettorali sul territorio - ma non vuole fare lo stesso errore dell'ex ministro dell'Interno. Che si lasciò sfuggire l'occasione giusta per aprire la crisi - lo scorso febbraio sulla Tav come gli aveva ripetutamente consigliato Giancarlo Giorgetti - e scivolò fuori tempo massimo fino al 7 di agosto. Insomma, se davvero bisogna mettere la parola fine all'esperienza di governo è bene farlo su un tema centrale come l'Ilva, possibilmente a gennaio, approvata la manovra e prima delle regionali in Emilia Romagna. Non è un caso che ieri pure Dario Franceschini - uno degli artefici della nascita del Conte 2 - sia arrivato a dire che senza un nuovo patto tra Pd e M5s la maggioranza è a rischio. Il capo delegazione dem nel governo, insomma, inizia ad avanzare anche lui i suoi dubbi. E sarà proprio Franceschini uno dei principali interlocutori con cui Zingaretti si confronterà per decidere la strada che dovrà prendere il Pd.

Perché anche se il segretario dem

sembra ormai convinto che non ci siano alternative alle urne, il Pd è partito ben diverso dalla Lega. Con buona pace del «metodo Salvini», insomma, Zingaretti non ha la forza di decidere da solo se e quando staccare la spina.

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