Cronache con rabbia I primi ottant'anni ​di Giampaolo Pansa

Maestro di giornalismo, proveniente di sinistra, ha raccontato con successo la verità sulle stragi partigiane e la Rsi. Storici e intellettuali? Si sono infuriati

Cronache con rabbia I primi ottant'anni ​di Giampaolo Pansa

Sua nonna Caterina, analfabeta, quando gli voleva fare una confidenza, scandiva poche parole: «Non si può cantare in tutti i cortili». Per Giampaolo Pansa, che oggi taglia il traguardo degli ottant'anni, quella frase è diventata un po' un marchio di fabbrica. Una bussola che l'ha portato per paradosso, lui figlio della cultura giacobina piemontese e poi icona di tanta sinistra, a svoltare e svoltare ancora sfuggendo a dogmi e etichette comode ma asfissianti. Se c'è una cifra nella biografia di Pansa è la liberta che impedisce di incasellarlo una volta per tutte. Oggi, nel gioco evergreen delle bandierine, molti lo considerano un uomo di destra e questo, nell'Italia dei muri e delle ideologie che non cadono, è il miglior complimento ma a metà perché Pansa è solo Pansa. Molto studio, grande curiosità, memoria prodigiosa e occhi sgranati su un mondo che non finisce di stupirlo.

Il talento, precoce, si manifesta già in prima media quando il bambino riempie da solo, alla domenica pomeriggio, un giornaletto che si chiama Nero stellati, come la squadra della sua Casale: maglia nera con stella bianca. Giampaolo, cronista di calcio, compone su un foglio protocollo che poi distribuisce in classe ottenendo in cambio cicche e caramelle. È solo il prologo di una parabola strepitosa.

Va a Torino, all'Università, e subito sintonizza le antenne: alla prima lezione di storia delle dottrine politiche il professor Luigi Firpo sciocca gli studenti parlando per un'ora dell'educazione sessuale dei giovani aztechi. Tema crudo e lontanissimo da quello del corso dedicato agli scritti giovanili di Carl Marx sulla Gazzetta Renana . Firpo finisce e Pansa alza subito la mano; segue un breve dialogo con la conclusione di Firpo che non ammette discussioni: «L'argomento non c'entra niente ma l'ho fatto per dimostrare che qui comando io e faccio quello che mi pare».

Messaggio ricevuto. Pansa annuisce ma non si adegua. Lui, figlio di un operaio, guardafili del telegrafo di Alessandria, si muove con disinvoltura in quel pantheon di teste d'uovo, proiezione dell'Italia giacobina. Quella che si considera la parte migliore del Paese e guarda dall'alto in basso il popolo che arranca. Chiede la tesi ad Alessandro Galante Garrone, altro monumento della nostra cultura, e scrive un saggio lunghissimo sulla Guerra partigiana fra Genova e il Po. Il testo vince il premio Einaudi e verrà pubblicato da Laterza. È l'incipit di una carriera sfolgorante che potrebbe portare la giovane promessa nel santa sanctorum dell' intellighenzia subalpina.

Ma lui cambia registro e torna alla sua vocazione di cronista: il 1° gennaio 1961 entra come praticante alla Stampa , redazione Province. Una scrivania anonima che non gli basta. Il 9 ottobre 1963 il disastro del Vajont segna la sua carriera: alla sera, dopo aver chiuso in tipografia la prima edizione, Pansa viene inviato a Longarone in compagnia di un inviato navigato come Francesco Rosso. In macchina, con l'autista come usava allora, Rosso si calca il borsalino sugli occhi e dorme. Pansa, invece, resta sveglio e giunto, infine, nei pressi di Longarone riceve una sorta di battesimo del fuoco da un vecchio collega, Guido Nozzoli, che gli chiede: «Hai mai visto la guerra?». Alla risposta negativa, l'altro replica secco: «Vai avanti e la vedrai». Il primo pezzo ha un incipit semplice e memorabile: «Scrivo da un paese che non c'è più». Da incorniciare come quello, celeberrimo di Tommaso Besozzi sul bandito Giuliano: «Di sicuro c'è solo che è morto».

Poi i suoi articoli e le sue inchieste non si contano più: da Piazza Fontana allo scandalo Lockeed che contribuisce a scoperchiare insieme a Gaetano Scardocchia. Pansa è il principe degli inviati speciali ma anche questo vestito dopo un po' è da buttare. Eccolo a Repubblica , dove sarà vicedirettore, poi collaboratore di lusso nel Panorama di Claudio Rinaldi e condirettore all' Espresso ferocemente anti-berlusconiano ancora con Rinaldi, e poi nella stagione più levigata di Giulio Anselmi. La sua rubrica, Il Bestiario , inventata a Panorama e traslocata poi all' Espresso , entra nell'immaginario collettivo, i suoi graffi si fissano nel tempo e diventano quasi didascalie da antologia di alcune maschere della politica nazionale. Ritratti corrosivi e inarrivabili. Fausto Bertinotti è il Parolaio rosso, ma il sarcasmo sintetico dello scrittore dà il meglio fotografando l'inciucio, nella Bicamerale, fra Berlusconi e D'Alema. Nasce il Dalemoni che aprirà un filone inesauribile della satira.

Potrebbe pure bastare, ma alla non più verde età di sessantotto anni lo studente modello di storia torna a sgomitare e si apre la strada, mandando all'aria poltrone e allori. Nel 2003 esce Il sangue dei vinti , che poi è quello dei fascisti massacrati senza pietà e senza regole nelle settimane successive alla fine della Guerra. Dopo aver osservato con la lente d'ingrandimento i tic e le smorfie dei notabili democristiani e socialisti riuniti a congresso, Pansa si butta su chi la voce l'ha persa nel 1945. Lui, che arriva dall'altra parte, racconta la mattanza di quei mesi, i silenzi, le vergogne inconfessabili di chi è stato protetto troppo a lungo dallo scudo di una presunta superiorità morale. Gli danno del revisionista, del traditore, del venduto. Lui non fa una piega. Gira tutto lo stivale a presentare quel volume e quella pagina di storia che era stata strappata dai sacri testi. Lo contestano, gli gridano insulti, lui scrive e scrive ancora: Sconosciuto 1945 e La Grande bugia . Sempre per Sperling & Kupfer. Sempre con la lente d'ingrandimento e con il piccone in mano. La sua parrocchia lo rinnega, si ritrova a firmare per il Riformista e poi per Libero . Continua a produrre titoli, storie e controstorie, con un ritmo da catena di montaggio. A febbraio pubblica per Rizzoli La destra siamo noi , ovvero il Belpaese da Scelba a Salvini . Attualità e profondità.

Ma è già oltre con un altro volume: L'Italiaccia senza pace , sempre per Rizzoli, uno zibaldone di episodi e vicende del Dopoguerra accostati dall'occhio zingaro e acutissimo di uno dei più grandi giornalisti di sempre. Ancora più grande perché leale. Vicinissimo al potere, sempre lontano dai potenti.

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