"Spettri, magia e avventure: ecco la mia vita fantastica"

Mentre torna il suo romanzo più celebre, Mino Milani (85 anni) racconta la sua carriera tra fumetti e narrativa: "Ho tolto miele alle storie per ragazzi"

"Spettri, magia e avventure: ecco la mia vita fantastica"

«Cos'è la vita, infine? Uno spinterogeno che non funziona. Un sedile invece di un altro. Uno sportello. Una fila di comode, confortevoli, soffici poltrone? La morte è alla fila più avanti». Così commentava fra le pagine del suo La realtà romanzesca (Mursia, 1967) lo scrittore Mino Milani mostrando come spesso l'esistenza sia scandita più da piccole banalità casuali invece che da grandi eventi.

Eppure può succedere che un evento straordinario come quello di una donna data per deceduta che riappare all'improvviso possa cambiare per sempre l'esistenza di un uomo e la sua visione della realtà. È quello che accade fra le pagine di Fantasma d'amore, romanzo riedito recentemente dalla casa editrice Barion (pagg. 274, euro 14) che divenne nel 1981 un film di grande successo di Dino Risi interpretato da Marcello Mastroianni e Romy Schneider.

Una storia che Milani - nato a Pavia, ormai 85 anni fa - confessa nacque «soprattutto dall'immagine, viva ancora oggi, di una donna vista alla fermata di un tram: ancora giovane, ma trascinata fuori dal tempo, certo da una malattia senza scampo, atteggiamento rassegnato, volto d'un pallore mortale, occhi grandi e infossati: è un fantasma, mi dissi. Pensai allora: che cosa potrebbe accadere a qualcuno se gli si presentasse davvero un fantasma? Potrebbe sopravvivere? Probabilmente no. E se, poi, il fantasma venisse con l'intenzione di vendicarsi, chi si trascinerebbe con sé? E perché un fantasma potrebbe apparire proprio in una città come Pavia, quieta e provinciale forse fin troppo? Ecco, quando scrissi il mio libro, pensai di rispondere a queste domande».

Cosa ricorda del film che venne tratto da quella storia?
«Ho un caro ricordo di Risi, Angeletti, De Angelis e Mastroianni; né mai vorrei, e né potrei, dimenticare l'abbagliante bellezza della Schneider».

Com'è la Pavia che ha raccontato in molte sue storie?
«Non lo so. Voglio dire, certe volte penso d'aver descritto una città che non c'è, forse che anzi non c'è mai stata e, come che sia, nel suo complesso senza dubbio migliore di quella involgarita e decadente di oggi».

L'aver lavorato per anni come bibliotecario che rapporto ha innescato fra lei e i libri?
«Quel lavoro, anzi quel nobile lavoro, ha suggellato un rapporto che già avevo, e felice. Mi ha fatto vedere da vicino, da vicinissimo, quanto grande e instancabile sia l'uomo, quanta intelligenza possegga e tramandi nel tempo. Alla fine penso che (messo alle strettissime, si capisce), come ho rinunciato alla televisione, potrei anche fare a meno di un sacco di altre cose. Ma non certamente dei libri».

Quando è iniziato il suo rapporto con la letteratura d'avventura?
«Da ragazzino. Da quando gettai alle ortiche, perché nessuno li trovasse, i libri cosiddetti “edificanti” e m'immersi in Salgari, per esortazione di mio padre, strenuamente cattolico, ma bravo soldato in guerra. Fu Salgari a vaccinarmi contro il buonismo. E dopo di lui, vennero quelli della “Romantica Sonzogno”: Sabatini, Curwodd, Zane Gray, Mason, Rider Haggard e via via fino a London e a Conrad. Furono loro i miei maestri. Mi aiutarono ad affrontare dignitosamente la guerra, durata quanto la mia adolescenza».

Lei ha scritto tantissimi romanzi per ragazzi. Qual è stato il suo approccio a quelle storie?
«Quando ho iniziato a scrivere le mie storie si ricorreva spesso all'importazione, sia per i libri gialli che per quelli d'avventura. L'unico modo per scriverne era farlo per ragazzi. Letterariamente parlando scrivere per loro, significava iscriversi alla serie C. E del resto oggi è ancora così, da noi italiani, dico, unici o quasi nel mondo... Il mio approccio fu quello di tentare l'argomento “realtà” e quello “scrittura”. Dunque non più manine piedini e erbetta, ma mani piedi erba; non più il miele sparso sulle parole; ma semplici parole, quelle usate nel giornalismo, o nel racconto per gli adulti. Niente trionfo del Bene: dunque la lotta, la generosità, la violenza, il premio e il castigo, la sconfitta, la vittoria, la morte. Cominciai così a scrivere di cattivi magari più belli dei buoni. Ritrassi eroi che dopo due giorni di galoppo puzzano come i loro cavalli. Avevo bene in mente quelle parole che Raymond Chandler scrive a proposito delle belle donne: “Ma sì, certo, sono umane, sudano, si sporcano, devono andare al gabinetto: Che cosa credevate che fossero? Farfalle dorate in una nebbia rosa?”».

Lei ha iniziato la sua carriera grazie a Giovanni Mosca.
«Era certamente un uomo straordinario. All'inizio un filo diffidente, di non molte parole, giustamente esigente e difficile ad aprirsi: poi abbastanza cordiale, sorridente, disponibile. Anche se tuttavia sempre - come dire? - un po' altrove. Fu un mio racconto - il primo di quelli diciamo così “realisti” - a convincerlo a farmi lavorare. Mosca lo intitolò Il miglior nonno del mondo. Mosca detestava il fumetto, lo combatteva, e diceva che io lo aiutavo nella sua battaglia. Si immagini come rimasi quando nel 1960 mi chiese di scrivere per lui un fumetto garibaldino. Fu proprio con quella storia che il fumetto ritornò sulle pagine del Corriere dei Piccoli».

Com'era la redazione del Corriere dei Ragazzi in cui lei ha lavorato per molti anni?
«Non credo la si possa raccontare come un insieme ottimistico e quasi goliardico; mi pare di no. Non mancavano momenti di pausa, di confronto e di progetto, naturalmente; ma si lavorava, soprattutto, con impegno e con la convinzione di fare qualcosa che non era mai stato fatto. E, almeno per me, con il presagio che, per dirla col Petrarca, non sarebbe durata».

Lei ha scritto storie per disegnatori come Mario Uggeri, Aldo Di Gennaro, Hugo Pratt, Sergio Toppi, Dino Battaglia, Milo Manara, anticipando in qualche modo le moderne graphic novel...


«Perbacco, posso dire di aver lavorato con i grandi disegnatori, e questo sì, mi rende, se non orgoglioso, certamente molto contento. Non vedo alcun nesso, però, tra il fumetto di allora e quello di oggi. Fondamentalmente il fumetto di allora introduceva e anticipava la lettura del libro; quello di oggi si vorrebbe sostituire ad essa».

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